Biloslavo: «Quel bambino salvato in Ruanda che aspetto mi chiami»

Il giornalista presenta al Circolo della stampa “Guerra, guerra, guerra”: trentacinque anni sui fronti caldi scritto con Gian Micalessin

Trieste, una vita sul fronte di guerra: Biloslavo si racconta in un libro

L'INTERVISTA «La mia sottile linea rossa l’ho incontrata in Uganda, quando di fronte a un massacro, con le collinette intorno piene di cadaveri, ho avuto un tentennamento. Allora ho preso il bloc notes, ho acceso un cigarillo per sopraffare il lezzo dolciastro della morte e mi sono messo a prendere appunti e a filmare. Allora ho capito che quella sarebbe stata per sempre la mia vita».

Reporter di guerra per passione diventata uno stile di vita, Fausto Biloslavo ha condensato trentacinque anni passati a raccontare conflitti nel libro ‘Guerra, Guerra, Guerra’ (Mondadori, pagg. 251, 24,90 euro) scritto assieme a Gian Micalessin, che presenterà oggi, alle 18, al Circolo della stampa. Interverrà via skype anche la corrispondente Rai da New York, Giovanna Botteri.

«Eravamo giovani, volevamo girare il mondo e inseguire l’avventura, leggevamo Corto Maltese e avevamo l’idea romantica di raccontare le guerre». Biloslavo ricorda così gli inizi della professione, quando con Micalessin e Almerigo Grilz, fonda l’Agenzia Albatross. «Cercavamo una guerra da raccontare e così siamo partiti per l’Afghanistan travestiti da mujaheddin. Era il 1983, abbiamo attraversato la frontiera raccontata da Kipling e percorso il Pakistan in treno. In quel viaggio fatto con nella testa le note di ‘Vita spericolata’ di Vasco Rossi ho capito che quello era il mestiere che volevo fare».

Quali considera siano stati i suoi migliori reportage di guerra?

«Ce ne sono tanti. L’ultima intervista a Gheddafi nel 2011 nella sua tenda di beduino è stata uno scoop. Oppure nel 1982 in Libano, quando sono riuscito scattare l’unica foto di Arafat che fuggiva da Beirut. Ma ci sono pezzi che restano nel cuore che non sono scoop, come quando in Ruanda, nel 1994, in una parrocchia dove erano stati massacrati quattrocento civili ho trovato un bambino, l’unico sopravvissuto del massacro, nascosto nella boscaglia. Lo abbiamo salvato e consegnato ai missionari. Gli ho lasciato cento dollari e il mio biglietto da visita, ho sempre sognato che un giorno mi avrebbe chiamato. Ma anche l’incontro con Massoud, il principe guerriero afgano, conosciuto durante l’invasione sovietica. Nel suo nido d’aquila ho visto come pianificava la battaglia del giorno dopo, quando ho potuto seguire l’assalto alla baionetta di trecento mujaheddin».

Il suo mestiere è diventato più pericoloso?

«Dall’11 settembre in poi certamente. Prima potevo restare un mese con i talebani girando da solo senza problemi. Dopo è diventato impossibile fare il reportage perfetto, quello in cui si riesce a descrivere il conflitto da entrambe le parti in campo. La guerra di civiltà che voleva creare Bin Laden ha fatto sì che il reporter occidentale sia considerato un nemico o un potenziale ostaggio. Anche prima ammazzavano i giornalisti, ma era diverso. Adesso è più pericoloso perché i giornalisti sono diventati prede per riscatti».

C’è un insegnamento che ha tratto da queste esperienze?

«Le guerre mi hanno insegnato ad amare la pace. Essermi trovato di fronte alla morte tante volte mi fa apprezzare le piccole cose della vita. Quando torno dai reportage cerco sempre di prendere il treno per tornare a Trieste. Guardo il golfo dalla costiera e mi dico quanto siamo fortunati a vivere in pace da settant’anni».

Si è chiesto perché l’uomo non può fare a meno delle guerre?

«La guerra è lo specchio degli estremi dei sentimenti più forti: male e bene, lealtà e tradimento, coraggio e vigliaccheria. Ed è questo che mi attrae delle guerre».

Ha mai pensato di entrare nella scena, di sparare?

«Qualche volta mi sono detto, di fronte a qualche massacro, bisogna fare qualcosa. Ma i giornalisti devono solo testimoniare. Non sparerei mai un colpo».

La prossima missione?

«Tornerò in Siria a raccontare gli jihadisti italiani che stavano con l’Isis e che sono stati fatti prigionieri. Ma ancora cinque anni e poi basta, appenderò il giubbotto antiproiettile al muro. E allora, forse, ci sarà tempo per il soggetto di un film». —
 

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