Ariella Reggio: «La Contrada cominciò con i gettoni»
TRIESTE. «Erano anni incredibili. Fatiche tante, soddisfazioni poche, almeno all’inizio. Oggi nessuno ci crederebbe, ma allora, nel ’76, non c’erano né e-mail né telefonini. E il teatro si faceva …con i gettoni». A quarant’anni dalla fondazione, Ariella Reggio ritorna con la memoria ai giorni in cui nacque la Contrada. «Ricordo Orazio Bobbio, con il costume di scena addosso, ancora truccato, che raggiunge la prima cabina telefonica nei dintorni, da là chiama tutta l’Italia e prova a vendere i nostri primi spettacoli. Non so dire se eravamo più ingenui o più incoscienti».
Maggio ’76. Nel mese del terremoto vide la luce il “teatro popolare” che nelle intenzioni dei suoi fondatori – tre attori e un regista: Orazio Bobbio, Ariella Reggio, Lidia Braico e Francesco Macedonio - voleva rappresentare l’alternativa al monopolio dello Stabile del Friuli Venezia Giulia. Martedì 10 maggio, al teatro Bobbio, che in quegli anni si chiamava Cristallo ed era un cinema, una serata di festa ricorderà le quarantuno stagioni che da allora si sono succedute. «Per un po’ andammo avanti con i gettoni. Più tardi riuscimmo a trovare un piccolo ufficio in piazza Libertà. Ci concedemmo un telefono vero. Da quel momento fu Renata Camillucci a chiamare i teatri. E riusciva a convincerne parecchi: i nostri spettacoli cominciarono a piacere, la nostra impresa piano piano a decollare. Non so se fu pazzia. O la grande incoscienza che ci mettevamo: creare un teatro dal nulla».
Volle anche dire inventarsi un mestiere nuovo.
«Sì, perché fino ad allora eravamo stati attori scritturati. In quel momento diventavamo invece imprenditori. E dovevamo sapere fare tutto. Ricordo ad uno ad uno i camion che ho scaricato, i tubi Innocenti che ho spostato. E poi la burocrazia, le carte, i permessi. Soprattutto i debiti».
Tanti...
«Li facemmo e li ripagammo. Il mio papà e la mamma di Orazio ne sapevano qualcosa. Ma erano tutte scoperte per noi. Tenevo i conti proprio io, che sono negata, e non ci dormivo la notte. Orazio, più incosciente, dormiva invece tranquillo».
Macedonio lo chiamava il “periodo romantico”.
«A essere romantici eravamo solo noi, perché i tempi erano davvero duri. Pensare che mentre allestivamo il nostro primo spettacolo, “A casa tra un poco”, arrivò il terremoto. Provavamo negli spazi del Centro di Salute Mentale di via Gambini e quella sera, il grande scossone lo attribuimmo ai ricoverati nelle stanze sopra le nostre teste. ‘Che gli avrà preso stasera?’ si chiese Macedonio. Ma capimmo subito la portata di quella tragedia».
Lo spettacolo debuttò, due settimane dopo, all’Auditorium.
«Non era uno spettacolo allegro. Parlava dello sciopero generale del 1902, a sostegno dei fuochisti del Lloyd Triestino che chiedevano condizioni di lavoro più umane. Assieme agli autori, Damiani e Grisancich, avremmo voluto dare al dialetto una dignità diversa, un ruolo drammatico rispetto al versante comico, che aveva decretato il successo delle “prime” Maldobrìe, quelle che pochi anni prima avevano portato al Rossetti più di diecimila abbonati».
Non c’è autore che tenga: al dialetto si addice il comico.
«Orazio aveva un fiuto speciale. Per anni continuò a ripetere due cose. La prima era: dobbiamo dare un tetto alla nostra compagnia. E a forza di chiacchiere e di persuasione riuscì a convincere la signora Spadoni, proprietaria del Cinema Cristallo, ad affittarci la sala. Altrimenti chissà, sarebbe diventato un supermercato. Ancora debiti, comunque. Ma la Contrada aveva finalmente una casa. E i primi 186 abbonati».
La seconda cosa che stava a cuore a Bobbio?
«Diceva: è il dialetto la nostra strada. Qualche anno dopo scoprì il testo che avrebbe cambiato la storia della compagnia. Gli era capitato tra le mani un vecchio vaudeville francese, “Le sorprese del divorzio”. Lo portò da Carpinteri & Faraguna. ‘Se ne può ricavare qualcosa’ dissero i due in coro. E nacquero le famose “Due paia di calze di seta di Vienna”. Un successo di cui non ci capacitavamo. Non credevamo ai nostri occhi quando la fila per i biglietti raggiunse perfino Piazza Perugino».
Da quel momento ogni anno un titolo in dialetto.
«Abbiamo tentato anche altre strade: testi contemporanei come “Tango viennese”, che mi piacerebbe tanto riportare in scena, o “Buona notte mamma”, un ruolo drammatico che mi ha dato molte soddisfazioni. Ma è il dialetto che va naturalmente incontro al pubblico. Anche nel caso di quest’ultimo “Ritorno a Miramar” dove, assieme ad Alessandro Fullin, abbiamo provato ad imboccare una strada nuova, … demenziale. I tempi cambiano, e bisogna saper cambiare».
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