Antonia Klugmann: «In cucina adoro le erbacce: usare risorse sostenibili ci aiuta a non fare del male»
TRIESTE Scegliere gli ingredienti giusti, trovare il giusto equilibrio tra rispetto e libertà, senza rinunciare all’emozione, lasciandosi sempre sorprendere, è arte di vita prima ancora che culinaria.
La storia di Antonia Klugmann è scritta dalle scelte compiute, sentite, consapevoli. La donna che indossa la divisa da chef è un tripudio di sapori. Nonne e bisnonni l’hanno impregnata di culture e lingue.
Per trovare la sua anima basta andare tra i fornelli. Se non la si trova lì, è nei campi: erba, anche lei, tra tante.
Triestina che vive in Friuli, ebrea ucraina, emiliana, pugliese. Quanto conta questa mescolanza di componenti? Da ognuna deriva un modo di essere e un ingrediente?
Per il resto d’Italia non è così, ma nel Nord Est le famiglie composite sono una normalità e una ricchezza. Da bambina, non ricordo classi con cognomi solo italiani. Lo stratificarsi è ciò che caratterizza la nostra storia. La mia famiglia paterna si trasferì da Leopoli a Zurigo durante la Grande Guerra, e poi a Trieste. Bisnonno Klugmann era commerciante e, come la moglie, conosceva quattro lingue: russo, tedesco, italiano e inglese. Purtroppo, di generazione in generazione, si assiste al depauperamento del multilinguismo che caratterizzava le famiglie triestine. L’ingrediente che mi porto dall’Est Europa è l’abbinamento frutta-carne, molto presente nella mia famiglia.
Come vive la componente ebraica?
Attraverso la storia di mio nonno Klugmann, che, dopo aver ascoltato l’annuncio delle leggi razziali in piazza Unità a Trieste, tornò a casa sconvolto: «Go sentio una roba pazzesca. Mussolini ga dito una roba pazzesca». Fu costretto ad interrompere gli studi in medicina. La famiglia dovette nascondere i beni e scappare con un treno turistico verso il Centro Italia come ne “Il giardino dei Finzi-Contini”. Medico, conobbe la famiglia cattolica di mia nonna e alla fine del conflitto tornarono a Trieste, riprendendo possesso dei beni. È stata una bella storia d’amore. Nonna Marisa Cocchi, per me Mimma, era emiliana. Mi ha portato l’italianità: ragù, pasta fresca, polpette. Amava contaminare i piatti con suggestioni croate e serbe. Ricordo il pranzo della domenica o il carnevale con krapfen e frittelle di mele. Io sono tutto questo.
E poi c’è la famiglia materna. Triestina?
Nonna Fontanot era l’unica triestina. Veniva da Muggia e apparteneva a una famiglia partigiana. Il mio bisnonno è morto di spagnola durante la Grande Guerra. La mia bisnonna, grazie a un negozietto, riuscì a mandare le tre figlie all’università, a Napoli. Grande modernità per gli anni ‘30. In un clima di libertà, nonna imparò le lingue: tedesco, italiano, inglese; e poi insegnò alle magistrali a Trieste. Per guadagnarsi da vivere, in pieno fascismo, lavorò per lo Stato in Germania, dove incontrò il futuro marito: Bartoli di Molfetta, pugliese, fascista, impiegato, con cui a fine guerra tornò a Trieste.
Ha trascorso molto tempo con i nonni?
Mamma era professoressa universitaria e papà cardiologo. Vivevo tra Casa Fontanot-Bartoli, dove cucinava divinamente nonno Antonio di Molfetta in modo mediterraneo, portandomi al mercato del pesce per prepararmi le triglie alla livornese, e casa Cocchi-Klugmann, classica famiglia in cui la nonna faceva la casalinga mescolando nei piatti varie componenti, centro italiche e austro ungariche.
Che bambina e adolescente è stata?
Vivace ma molto disciplinata, educata, rispettosa delle regole purché le ritenessi giuste. Con difficoltà tuttora seguo norme che non condivido. Anche da adolescente ero così. Sono stata cresciuta senza imposizioni. L’importante era avvertire di un eventuale ritardo nel rientro. Era una prova di responsabilità e fiducia. Sono figlia di genitori realizzati professionalmente. Non di genitori che dovevano realizzarsi attraverso me. La loro felicità non dipendeva da me. Questo mi ha fatto sentire libera di scegliere e sbagliare, parte di un nucleo familiare ma non imprigionata in esso.
Così ha trovato la forza di lasciare l’università per imboccare la strada giusta?
Sono stata sempre promossa, anche al liceo classico frequentato a Trieste, ma non eccellevo in ciò che non mi interessava. In famiglia studiare era un valore e un piacere. Mia nonna casalinga, quando aspettava il secondo figlio, si laureò in farmacia. Nonno Klugmann fino a 90 anni aveva sulla scrivania riviste di medicina. Ho lasciato giurisprudenza perché cercavo un modo per esprimere la mia creatività. Appassionata da sempre di teatro e fotografia, la cucina era diventata il pensiero fisso. Una strada nuova in famiglia. Una follia, anche perché non c’era ancora l’idea del cuoco creativo. Ho iniziato facendo la bubez (così si chiama il tuttofare a Trieste) in una buffetteria. Poi uno stage in un ristorante dove i cuochi avevano scommesso che non avrei resistito una settimana. Invece lì capii che la cucina era il mio posto nella vita.
Un incidente diventa occasione di arricchimento?
Sono tornata a Trieste dopo l’università, e poi in Friuli, per fare l’apprendistato. Durante lo stage un incidente mi ha tenuta ferma un anno in campagna. Così ho coltivato il mio primo orto e letto tanti libri di botanica, camminando. Una scelta consapevole di ricerca personale ancora una volta, non ereditata, che si riflette in cucina. Sono la prima cuoca ambasciatrice del Wwf. Tutelare la natura è essenziale per il processo creativo. La sensazione di non fare del male, di usare risorse sostenibili, senza togliere a chi ha poco, mi fa stare bene. Nel piatto allora c’è bellezza e rispetto.
C’è un’erba in cui si identifica?
Mi trovo bene con la piantaggine, l’erbaccia più erbaccia che ci sia. È ovunque. La uso da sempre, almeno la foglia, sbollentata o cruda. Ho imparato ad amarla in età adulta e a usare il capolino che sa di fungo in Australia. Una scoperta.
Passato e futuro come si conciliano in lei? Ogni cuoco dosa a modo suo vecchio e nuovo, tradizione e innovazione. È così anche nella vita?
Si tiene tutto. Lo insegna la campagna. Dietro una verdura c’è l’uso di tanta acqua e sforzo. In cucina come nella vita scelgo ingredienti poveri che sprigionano qualcosa di sorprendente. Dal passato arriva in ristorante la magia delle posate della mia bisnonna portate dalla Polonia un secolo fa. Molti clienti mi mandano oggetti vecchi perché sanno che li userò. Mi commuovono. Non vivo il passato in modo malinconico rifacendo i piatti di famiglia. I miei avi mi hanno fornito gli strumenti attraverso i sapori. Ora tocca a me giocare.
Il suo ristorante si chiama “L’Argine”. Antonia vive al limite? Protetta? O sconfina?
“L’Argine” a Vencò è nome scelto da mia madre. Siamo sull’argine del fiume Judrio che era anche il confine tra Italia e Impero austro-ungarico. Adesso è il confine tra Collio, Colli orientali e provincia di Gorizia e di Udine. L’argine simboleggia protezione, limitazione, essere al limite, sul limite. Anch’io mi sento così. Fuori dalle grandi rotte delle città ma al contempo vicino a tutto, perché vivere in campagna non è oggi essere provinciali ma scegliere. La modernità ci permette la connessione. Io mi sento partecipe del mondo fin da quando ho aperto il primo ristorante a Pavia di Udine a 26 anni.
Cosa ha rappresentato l’esperienza televisiva?
Una scelta da imprenditrice in funzione del ristorante. Diventare famosa non rientra nella mentalità di famiglia che si è sempre realizzata attraverso lo studio. La notorietà non deve essere la finalità. Diverso è diventare noto per le proprie doti.
Essere una chef donna comporta difficoltà maggiori?
No. La questione non è in cucina, ma fuori. La donna da poco può decidere della propria vita. Se non c’è parità, la società perde metà del talento, che è distribuito equamente tra uomini e donne, ancora educati diversamente. La cucina mi ha permesso di esprimere la mia natura più profonda. L’amore che ho ricevuto in cambio è incredibile. Così come l’esempio di modernità e apertura delle mie ave, sopravvissute alla guerra, innamorate, laureate. Io mi sento figlia di questa storia. In debito per la libertà conquistata da loro prima che da me.
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