A 80 metri di profondità riemerge la battaglia delle Egadi

Due triestini nel team che ha recuperato dal fondo del mare rostri in bronzo ed elmi romani

TRIESTE A ottanta metri di profondità nelle limpide acque a nord-ovest dell’isola di Levanzo, la luce delle torce illumina ciò che rimane di una dei più grandi scontri navali dell’antichità: un rostro di bronzo, con un’iscrizione punica sulla guaina superiore. Poco più in là, un altro rostro, questo ancora di incerta provenienza, testimonia una volta di più la violenza della battaglia delle Egadi, che il 10 marzo del 241 a.C. vide la flotta cartaginese guidata da Annone affrontare quella romana capitanata da Gaio Lutazio Catulo, al termine di ventiquattro anni di guerra che avevano stremato tanto Roma quanto Cartagine.

A 80 metri di profondità riemerge la battaglia delle Egadi

Quel 10 marzo la flotta con trecento navi allestita da Roma spremendo le ultime risorse, all’altezza di Levanzo tese un agguato alla formazione cartaginese, forte di 120 unità da guerra e 130 navi cargo cariche di grano e altri aiuti per sostenere le truppe di Amilcare Barca sfinite dalla lotta alle falde del Monte Erice. Sbucando all’improvviso dal riparo dell’isola di Levanzo i romani si schierarono formando un muro di scafi davanti alla flotta nemica. I cartaginesi ammainarono le vele e accettarono il combattimento. Più di cinquecento navi in totale, con a bordo duecentomila uomini, si lanciarono a forza di remi le une contro le altre cercando di affondarsi a vicenda a colpi di rostro e di arrembaggi. Trenta navi della Repubblica romana e cinquanta cartaginesi colarono a picco in un’area di appena due chilometri quadrati tra Levanzo e Marettimo, assegnando a Roma la vittoria della prima guerra punica.


Oggi sul fondo del mare sono rimaste le tracce di quello scontro navale reso immortale dalle cronache di Polibio, resti che permettono di ampliare di molto le conoscenze sulla battaglia delle Egadi. E di toccare con mano un evento storico di oltre duemila anni fa. «Vedere i rostri in fila, uno dietro l’altro, sul fondo del mare, seguendo lo schieramento delle navi di cui nient’altro rimane, e gli elmi sparsi sul fondale persi dai soldati, permette di fare un salto nel tempo con un’emozione indescrivibile». Parole del subacqueo altofondalista triestino Mario Arena, assieme al parmigiano Francesco Spaggiari coordinatore del progetto di ricerca del team della Gue-Global Underwater Explorers, che per conto e sotto la direzione della Soprintendenza del Mare ha effettuato immersioni, sondaggi, rilievi e recuperi nel corso dell’ultima campagna di ricerche archeologiche subacquee - da poco terminata - nell’aera dell’antica battaglia. Ricco il bottino: due rostri recuperati, uno dei quali con un’eccezionale iscrizione punica, e dieci elmi di bronzo del tipo Montefortino in dotazione ai militi romani, uno dei quali con una rara decorazione in rilievo che riproduce una pelle di leone. Il gruppo degli altofondisti della Gue (tra cui anche il triestino Ronnie Roselli, ma come cameramen esterno, e l’udinese Luca Palezza) in oltre cento immersioni ha esplorato una vasta area a profondità comprese fra i 75 e 95 metri, andando là dove apparecchiature elettroniche come il Rov, il side scan sonar e il multibeam hanno meno effetto.

«L’occhio dell’uomo vede meglio delle macchine, specie su fondali rocciosi», spiega Arena, il cui team di subacquei è l’unico al mondo a effettuare ricerche e rilievi scientifici da cantiere archeologico a profondità così elevate. Per un’ora di permanenza a ottanta metri sotto il mare sono necessarie almeno tre ore di tappe di decompressione prima di poter tornare in superficie, soste compiute spesso in acqua libera in balia di correnti fortissime, a due nodi e oltre, che hanno “sparato” i subacquei muniti di scooter fino a cinque miglia di distanza dal punto dell’immersione. «Segnalavamo la nostra presenza con appositi galleggianti, e le barche d’appoggio ci seguivano», spiega Arena. Le campagne di ricerca in corso da alcuni anni hanno finora restituto tredici rostri, diciotto elmi, centinaia di anfore e reperti di uso comune. «Ma il risultato di quest’ultima campagna è eccezionale - sottolinea il Soprintendente Sebastiano Tusa - sia sotto il profilo scientifico, visto che aggiunge altri reperti con caratteristiche assolutamente inedite a quelli già recuperati, e che potranno apportare nuovi dati tipologici, tecnici, epigrafici e storici, sia sotto quello metodologico, che vede un eccellente esempio di giusto equilibrio fra ricerca strumentale e intervento diretto dell’uomo».


©RIPRODUZIONE RISERVATA


 

Riproduzione riservata © Il Piccolo