Vita nei rioni oltre i pregiudizi tra orgoglio, colori e solitudine - Il trailer

Valmaura, Ponziana e Melara raccontati attraverso la lente di tre giovani registi in erba. Un viaggio alla scoperta di luoghi che non ti aspetti, sfociato nel docufilm “Città Visibile”

Le voci della periferia di Trieste in un documentario: attesa per "Città visibile"

TRIESTE Dovevano essere tre piccoli cortometraggi, ne è uscito un film intero che ha stupito gli stessi ideatori. Un’esigenza di raccontare e raccontarsi forte, inaspettata e travolgente, quella registrata in “Città Visibile”, il bel documentario che descrive i luoghi di Trieste attraverso le voci e i volti dei suoi stessi abitanti. Tre quartieri periferici, Valmaura, Melara e Ponziana, sono stati gli “osservati speciali” per mesi, catturati così, autentici e senza filtri, da giovani e giovanissimi registi attraverso l'occhio di videocamere il più delle volte mai imbracciate nella vita. Un risultato importante, per il progetto dell’Associazione Maremetraggio finanziato da Siae che, in attesa di essere presentato il 25 gennaio come evento speciale al Trieste Film Festival, stimola e offre lo spunto per approfondire le tante anime di questi rioni, oltre quella patina di pregiudizio che spesso vela lo sguardo. Ecco quindi un mini-viaggio per provare a scoprire, attraverso le testimonianze degli stessi protagonisti e registi del film che ci vivono, ci lavorano, ci transitano per un periodo, il luogo che non ti aspetti, problematico ma vitalissimo, con le sue innegabili criticità ma anche forte di sorprendenti manifestazioni di solidarietà e integrazione, messe in atto non solo dalle strutture istituzionali ma talvolta anche da vere e proprie “fratellanze” strette tra gli abitanti stessi.

Valmaura, “Un Oceano Immenso”

Ad accompagnarci nel primo viaggio è Tilen, 25 anni, operatore della Microarea di Valmaura, dove ha prestato servizio civile per un anno. Un periodo vissuto gomito a gomito con problematiche sconosciute e la varietà sfaccettata dei suoi abitanti: i classici preconcetti dell’inizio, per andare poi ad abbracciare una realtà inaspettata e arricchente. «L’avevo sempre considerato un posto non interessante per me – racconta -, anche un po’ insidioso, sempre per sentito dire: i classici brutti giri, storie più o meno vaghe. Risultato: ci passavo solo col cane e mi guardavo pure un po’ intorno».

«Quando sono arrivato - continua - ho trovato una situazione totalmente diversa: soprattutto persone molto umane, vere, sicuramente con problemi. Ignorarle non serve a niente, anzi: peggiora la situazione. Il grosso del problema è che la periferia in generale era considerata, e credo lo sia ancora, un ghetto dove isolare la gente problematica, quando la società ritiene non si possa fare più niente: lasciandola lì, ad arrangiarsi chiudendo la porta a chiave. La Microarea è quello strumento che serve a spezzare questo meccanismo».

Situata nell'appartamento di un condominio, la Microarea di Valmaura fa da perfetta radiografia al quartiere, soprattutto nel suo convogliare storie spesso difficili. «Per chi la frequenta è un punto di ritrovo, un momento ricreativo anche solo per passare il tempo: un luogo dove s'incontrano le persone che vivono lì intorno, che altrimenti si ritroverebbero forse in un bar o magari non si troverebbero nemmeno, e dove si parla di quello che è successo il giorno prima bevendo un caffè insieme. Un momento rilassante, dove la gente arriva la mattina con le prime necessità da risolvere». Una lavagna per segnare le cose da fare, molti appuntamenti, un via vai frenetico, dalle richieste dei frequentatori alla consegna delle spese del Banco alimentare al doposcuola per ragazzini di origini rom.

«La Microarea è un punto di riferimento fondamentale: se uno ha un problema va lì, se ha bisogno di mangiare o di un ventilatore, anche cose sciocche. È importante capire che nella ricerca d’aiuto spesso c’è una scusa dietro: le persone chiedono altro, quando han problemi molto più seri ti diranno che han bisogno di una bazzecola. Paura, timidezza, pudore, difficoltà a esprimersi o a fidarsi: ci vuole tempo e cura prima che la vera necessità si palesi. L’operatore dev’essere in grado di entrare in comunicazione, di capire quali siano i reali problemi e cercare di risolverli nella maniera più appropriata. È la povertà, comunque, il nodo di tutto, e da quello ne derivano altri».

«Le situazioni d’indigenza? Tante e diverse - continua Tilen -: c’è la famiglia rom che ha tre figli e un genitore senza lavoro, molti hanno parenti a casa da mantenere e assistere, e spesso con disabilità, diversi han perso l’impiego. Le nazionalità? Triestini, una gran parte di rom e sinti, che possono essere slovacchi o zingari italiani di Parma. Anche senegalesi, tunisini, indiani. È un melting pot ma non c’è differenza: hanno bisogno tutti».

Non è facile dire “ho bisogno di aiuto”, spiega il giovane operatore. «È un blocco: c’è anche chi riesce a essere sincero ma mediamente è uno sforzo esplicitare i propri problemi. La forza della Microarea è quando l’utenza stessa riesce a anticipare la richiesta d'aiuto. Non è più la persona che ti dice “ho il tal problema”, ma è l’amico che ce lo segnala. Ad esempio la dipendenza di una giovane donna dal gioco d’azzardo è emersa grazie all’anziana amica che frequenta Microarea. La ludopatia è diffusa, chi gioca non si fa vedere, si trova un posto lontano; qualche volta ruba, mentre diversi hanno una pensione decente che s’esaurisce troppo presto».

Altre dipendenze non mancano. «Alcolismo e droghe sono problemi molto forti e tangibili in una zona come Valmaura: vengono considerate soluzioni alla solitudine. Anche di quest’ultima c’è n’è tanta: una signora è morta in appartamento e nessuno per un mese l’ha mai cercata. Le dipendenze sono un problema che viene mascherato, la gente non ci pensa ma in zone come questa di casi ce ne sono tanti: gli unici aiuti vengono dalla struttura dell’Azienda sanitaria, altrimenti queste persone verrebbero lasciate lì, abbandonate a loro stesse».

«Altro grande traguardo - commenta ancora Tilen - è il sistema della borsa lavoro, dove chi ha problemi e vive lì viene assunto per prestare in loco la sua opera: così aiuta la comunità, oltre che se stesso. Lo stesso avviene per i volontari che abitano a Valmaura: Paolo che guida il camion per portare frutta e verdura ne è un esempio. Sandro, invece, ha la borsa lavoro: è certamente importante perché col furgoncino dell’AsuiTs porta in giro chi ha difficoltà fisica a spostarsi o non ha soldi. Ma è soprattutto una risorsa in più per garantire la sua presenza, per esserci. La Microarea a volte sarebbe vuota, invece così c’è qualcuno disponibile, qualcuno che ti apre la porta, o che ti dice semplicemente “sono qua”: e già solo quella presenza è importante e può aiutare a cambiare le cose».

“Melarancholia”

C’è sempre da aspettare, a Melara. Lo osservano proprio alcuni dei protagonisti/registi del frammento di “Città Visibile” dedicato a questo rione, ed è vero: saranno le dimensioni monumentali del mastodontico quadrilatero, saranno quei corridoi infiniti, o quelle scale labirintiche che al visitatore comune fanno smarrire l’orientamento: fatto sta che le attese si rivelano lunghe, in questo luogo così peculiare, con indubbie criticità ma molto amato dai suoi abitanti. È ancora una volta uno dei giovani autori del documentario a guidarci, Federico, che vive nel complesso insieme alla compagna e al piccolo Alessio. Il suo entusiasmo e le sue prime parole, quel «Melara ce l’ho nel sangue», fanno immediatamente trapelare una sorta di orgoglio, un senso di appartenenza assolutamente fuori dal comune, viscerale come pochi altri luoghi possono vantare. Anche se si tratta di una visione certamente non esaustiva per un quartiere che, con le sue 680 famiglie e i suoi 2500 abitanti, rappresenta una sorta di edificio-città.

«Ormai Melara è diventato un luogo che si può definire turistico - esordisce Federico -, scelto sul fronte cinematografico come location anche a grosse produzioni, come l'ultima stagione di “La Porta Rossa” ma non solo: qui arrivano in parecchi anche per realizzare servizi fotografici: dai professionisti all’adolescente che gira video per postarli su youtube. L’altr’anno, ad esempio, si era piazzata sotto il mio balcone una compagnia di svedesi. Eravamo seccati: senza tanti complimenti hanno allestito tende all’esterno e amache sugli alberi, usando l’acqua delle fontane per riempire la piscina dei ragazzini. Poi però hanno iniziato a tappezzare la zona di scritte, così abbiamo capito che c’era un progetto sotto: alla fine era una tesi di laurea incentrata tutta su Melara».

Ma non è il mero apparire del quartiere, sia al cinema, sul web o altrove, a interessare a questo giovane padre, quanto piuttosto il significativo cambio di passo nel pensare comune e nelle coscienze che lui stesso sta registrando da qualche tempo a questa parte. «Dopo anni, decenni anzi - spiega - la gente ha finalmente iniziato a vedere il bello di questo posto: prima era considerata la galera, il Bronx “dove viveva cinque strazoni”, adesso si rendono conto che è il posto dove vivono 680 famiglie: e vivono bene, in armonia, con i servizi funzionanti e facilmente accessibili, e con tabacchino, market, posta a due passi senza prendere una goccia di pioggia o freddo. Io stesso per portare Alessio in asilo devo solo girare un angolo. Le scuole, poi, sono molto buone: lui va appena alla materna - dove, tra l’altro ha un’insegnante di sostegno che funziona -, ma anche quelle di ordine superiore dell’istituto comprensivo Iqbal Masih sono valutate molto positivamente per qualità degli insegnanti e funzionamento generale».

«Una delle ricchezze di questo luogo – continua - è che c’è solidarietà: la gente ha capito che è più bello dare che ricevere; che è giusto dare tanto, e magari certo, ogni tanto ricevere, ma senza chiedere. Noi stessi, con gli amici più stretti formiamo un gruppo di 16 persone, e ci piace chiamarci “a famigghia”: così, si cerca di darsi una mano, e non solo tra di noi. Questo significa andare a dipinger case di altri, trasportare mobili, ovviamente senza prendere un euro, portare le spese ai più anziani. Certo che c’è la chiesa di San Luca che è preziosa e dà sempre una mano a tutti, ma qui è diverso: è l’iniziativa individuale che si sta facendo sentire».

«Tutti stanno bene a Melara: ovvio, c’è il classico elemento disturbante che noi stessi teniamo sotto controllo, qualche puntata di ragazzini da un altro rione che si divertono a rompere vetri, scaricare gli estintori, nascondergli i cani alle signore anziane, e gli unici che non sono tollerati sono i tossici. Ma, tolte queste eccezioni, c’è armonia, si vive bene, e vale per tutte le razze e i colori che trovi qui. Sono arrivato a 14 anni con la famiglia e io stesso non sono stato sempre uno stinco di santo ma credo che oggi sia nata una rete, un sistema solidale che funziona. Anche quando semplicemente scendi per rilassarti un po’, per tirare il fiato dai problemi che tutti, chi più chi meno, si portano sulle spalle, vai in centro, là dove confluiscono le ali, e sai che a qualsiasi ora puoi trovare qualcuno con cui scambiare quattro chiacchiere».

I punti di ritrovo non mancano anche per quanto riguarda i più anziani, a garantire anche uno scambio intergenerazionale. «C’è il circolo Auser Pino Zahar, con Giorgio che ti dà le chiavi per fare una partita a bocce, c'è il portierato di Patrizia: anche questo funziona alla grande, con lei che ogni giorno, d'inverno, d'estate, si dedica anima e corpo a tutti. Ha allestito un bellissimo giardino coi fiori della parte centrale, è sempre lì pronta a dare una mano; io ci vado ad esempio per portare le spese del Banco Alimentare. Non vedo i più anziani veri “anziani”. Li vedo invece “sgai”, e noi più giovani cerchiamo spesso di coinvolgerli, magari preparandogli un piattino e invitandoli a fermarsi con noi quando facciamo da mangiare fuori. Ci siamo stati dieci anni, per farci conoscere, ed è un orgoglio vedere che tutto questo alla fine ha attecchito».

«Ci spiace per i 18 milioni di contributo che aspettavamo da anni - conclude Federico - diventati nove, troppo pochi per tutti i lavori che servono, a iniziare dal rimettere i ponti nuovi, perché il quadrilatero si assesta e si allarga. A parte ciò siamo contenti: è un’evoluzione, quella che è in atto a Melara. E ci siamo creati un bel mondo».

Ponziana, “Tutto il mondo è Paese”

Diversamente dai primi due quartieri, quello di Ponziana non è così identificabile con un’unica struttura precisa, mancando di un complesso iconico come Melara o dei poli che caratterizzano Valmaura, dalle più importanti infrastrutture sportive cittadine a un monumento nazionale con la Risiera. Più frammentato, Ponziana ha il suo cuore pulsante nei quartieri Ater di via Lorenzetti, via Orlandini e via Battera, dove sorge proprio la Microarea che ha tenuto a battesimo il progetto “Città Visibile”. È uno sguardo ancora diverso, stavolta, a guidarci: perché dall’Afghanistan dov’è nato, all’Iran dove si è spostato con la famiglia, alla Svezia dove si è trasferito, giovanissimo, da solo, è Trieste, a Ponziana, il luogo dov’è approdato Karim, uno dei tanti rifugiati che il quartiere ha accolto sotto l'egida dell’Ics.

L’Italia l’ha scelta per il sole, Trieste per non essere completamente solo. «La Svezia non mi piaceva - racconta Karim, 20 anni compiuti da poco - non vedevi quasi mai la luce, e invece sognavo un posto pieno di sole, poco freddo e piovoso, e anche che avesse una somiglianza con il Paese dove sono nato. Sono arrivato a Milano e subito ho scelto Trieste: è stata una mia scelta personale, conoscevo altre persone che erano venute qui. Almeno all'inizio, non volevo essere solo nel cominciare una nuova vita in un nuovo Paese».

«Sono arrivato a marzo 2017 - spiega - e poco dopo è scattato l’invito a partecipare alla realizzazione del documentario. È stata una bella occasione per me, che sia successo proprio in quel momento, perché mi ha permesso di conoscere il quartiere dal di dentro e di entrare subito in contatto i suoi abitanti. Mi hanno accolto bene e con curiosità. Una cosa che mi ha colpito è sapere quanti di loro hanno viaggiato: tanti e anche molto lontano, Australia, Stati Uniti. Come dico anche nel film, a me piace viaggiare, ma non i viaggi che abbiamo fatto noi».

«Ci hanno accolti in appartamento in quattro - continua Karim -. Io, un ragazzo del Bangladesh, uno del Pakistan e uno del Kurdistan: culture, lingue, religioni diverse e non sempre è facile convivere.

La cosa particolare è che capita anche per quelli della stessa nazionalità: è vero, siamo tutti afghani ma può capitare che ci si ritrovi di etnie e religioni differenti. Io ad esempio sono Hazar, che è un’etnia molto più aperta di mentalità che non altre assai più rigide, e scita come religione, mentre gli altri possono essere sunniti».

«Anche se la mia conoscenza del quartiere è ridotta, quello che ho visto è che la Microarea fa da vero centro di riferimento ed è frequentatissimo: io stesso ci sono andato più volte per dare una mano quando potevo e non ero a scuola o ai corsi: per preparare la tavola, per portare due borse, o anche solo per parlare con i frequentatori. Trovo interessante conoscere gente anche non della mia età, sono curioso di sentire altri pensieri, un'altra visione della vita. Mi è sembrato di vedere, ma questo in genere in tutto il rione, andando dal medico o semplicemente per passeggiare, molti anziani e pochissimi giovani: e quei pochi mi è sembrato non avessero molto interesse a stare coi più vecchi».

«Aspetti negativi? Non ho visto risse o particolari episodi anche se mi è parso un quartiere lasciato un po’ andare dove, a parte la Microarea, non c’è un posto dove trovarsi: ad esempio nei giardini, le panchine sono rotte e c’è abbastanza sporco». Un peccato per Karim, una sensibilità fuori dal comune unita alla vitalità dei suoi 20 anni. Che anzi, come dice nel documentario riflettendo con l’amico Siver sulla sacrosanta voglia di divertirsi, «siamo stranieri, ma questo non significa che non siamo vivi». —




 

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