Un destino più grande di un porto

Omar Monestier

A breve si spegneranno le luci sul porto. L’ubriacatura democratica, perché sì, questa gazzarra è un sano esercizio di democrazia, altro che dittatura sanitaria, terminerà e bisognerà pur immaginarsi un finale.

La grande festa di ieri, ad esempio, ha chiarito che si va al molo settimo per manifestare solidarietà al Clpt e non solo. Si va per mille altri motivi, alcuni affatto legati all’obbligo del green pass.

Il blocco ha offerto il palcoscenico sul quale mandare in scena tutti i delusi, gli emarginati, gli arrabbiati. È un bisogno di attenzione: ascoltare le migliaia di voci in mezzo ai cortei sarebbe stato più utile agli amministratori comunali, presenti e futuri, che ai giornalisti.

Bene. Ora bisogna chiedersi: che cosa sarà del Clpt da lunedì? Come ha investito sul futuro del suo sindacato l’osannato leader? Il Coordinamento dei lavoratori portuali era riuscito a liberarsi degli anni bui dello sfruttamento e della marginalità. Era diventato affidabile e questo gli attribuiva, finalmente, una reputazione.

Il Clpt mostrava al mondo, pur con quel suo mix di sindacalismo e di indipendentismo, che Trieste non era più un buco nero nella logistica europea e globale. È così ancora, nonostante le immagini delle manifestazioni stiano facendo il giro del pianeta.

I lavoratori del Clpt volevano i tamponi gratis, li hanno avuti (almeno in promessa). Poi si sono intestati una lotta simbolica, aspirano alla rivoluzione. Ciò è nobile, ma la città non li segue. I loro colleghi delle altre sigle continuano a lavorare, l’attività portuale ha rallentato senza fermarsi completamente.

Tutto può accadere, anche che il Clpt pieghi l’uomo, il presidente dell’Authority, che l’ha trasformato in un gruppo di lavoro qualificato da quel groviglio di cooperative che era. Non ci scommetterei, però. Ormai il destino del nostro porto non riguarda più solo Trieste. Per la fortuna della città e, temo, per malasorte del Clpt.


 

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