Trieste, Jindal stoppa la produzione alla Sertubi: in arrivo almeno cinquanta licenziamenti

TRIESTE Ieri mattina a palazzo Ralli, a un certo punto della discussione con i sindacati sul futuro ormai segnato di Sertubi, Maneesh Kumar, amministratore delegato di Jindal Saw Italia, ha buttato lì tra il lusco e il brusco una proposta di lavoro per chi intendesse trasferirsi nelle fabbriche del gruppo in Usa, India, Abu Dhabi... I rappresentanti di Fim e di Uilm hanno definitivamente compreso la mesta antifona: Sertubi aveva proprio imboccato la strada verso la chiusura. Adesso i casi sono due. O Jindal chiude tutto e manda a casa i 67 dipendenti al completo. Oppure Jindal cancella la produzione e mantiene un presidio commerciale-logistico, licenziando una cinquantina di addetti su 67. Si conclude la disastrosa storia di una fabbrica, nata nel 1998 con Duferco, Acegas, Ferriera, passata poi a Jindal nel 2011: sul terreno, tra la batosta del 2012 e quella in arrivo nel 2019, oltre 200 posti di lavoro. Per l’economia triestina il salasso più sanguinoso degli ultimi anni, pareggiato solo dalla debacle Burgo.
Gli indiani, presenti al tavolo anche con Neeraj Kumar e con il responsabile dello stabilimento Massimiliano Iuvara, non hanno dettagliato esuberi e tempistiche, riservandosi di farlo in seguito agli odierni incontri romani con Duferco (proprietaria dell’area nell’ex Arsenale) e al ministero dello Sviluppo Economico. Durante l’incontro nella sede confindustriale hanno comunque reso noto che negli otto anni di presenza triestina Jindal ha perso 49 milioni di euro. Il mancato ottenimento della certificazione “made in Italy” sui tubi prodotti in India e completati a Trieste si è rivelato esiziale per la fabbrica inaugurata nel 2000 in via von Bruck: alla difficoltà congiunturale del settore si è quindi aggiunta l’impossibilità di partecipare alle gare bandite dagli enti pubblici, come è accaduto con gli acquedotti del Veneto. C’è un po’ di lavoro da ultimare ma non arriveranno altri tubi da rifinire.
Nel meriggio, attorno alle 17, l’azienda ha diffuso una nota piuttosto anodina, in coerenza all’atteggiamento tenuto in mattinata: ricorda di essere leader mondiale nella produzione di tubi e di essere a Trieste dal 2011, sottolinea che recenti sviluppi della regolamentazione doganale «hanno avuto un impatto determinante sull’attività», si augura che il confronto tra le parti riprenda a fine agosto e porti «con il supporto di esperti alla ricerca della migliore soluzione possibile». Cioè? Potrebbe significare che Jindal vuole evitare un disimpegno cruento e spera in un supporto combinato di istituzioni e di aziende disposte a governare il ricollocamento dei lavoratori in esubero. Sandra Di Febo, “rsa” della Uilm, è un po’ l’interprete di questo retropensiero: «Il leader di Fincantieri Giuseppe Bono ha dichiarato che non si trova personale disposto a lavorare in fabbrica? Beh, qui c’è una cinquantina di volenterosi disposti a dedicarsi alla navalmeccanica».
Quello che irrita i sindacati è l’assenza di alternative produttive, nonostante il sito Sertubi insista all’interno del perimetro della cosiddetta “crisi complessa”, dove si potevano trovare risorse e opportunità per evitare l’ammainabandiera. Anche le sigle, che alla Sertubi sono Fim Cisl e Uilm, si stanno muovendo con Regione e governo, per contenere gli effetti di una crisi apertamente acclarata. Al confronto hanno partecipato Antonio Rodà, Marco Gregori, Sandra Di Febo per Uilm, mentre Fim era rappresentata da Alessandro Gavagnin, Michele Pepe, Francesco Pepi, Maurizio Granieri. Nel cortile di palazzo Ralli attendevano l’esito dell’incontro una trentina di lavoratori, tra rassegnazione e rabbia contro Jindal. Venerdì dovrebbe tenersi un’assemblea per valutare eventuali azioni di lotta prima del 5 agosto quando scatteranno due settimane di ferie. —
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