«Teatri lirici e di prosa, serve una riforma organica»
Un rigido piano di risanamento, una revisione dello statuto, diversi criteri di ripartizione del Fus, il Fondo unico dello spettacolo: tutto piovuto sulle Fondazioni liriche - teatro Verdi compreso, naturalmente - per decreto legge, così come per decreto è planata sui teatri di prosa la prospettiva di trasformazione in Teatri nazionali con vantaggi e pericoli (i dubbi che a Trieste serpeggiano ne sono una dimostrazione) da soppesare. Continui terremoti che scuotono il settore alla ricerca di un nuovo assetto, in mezzo a casi clamorosi come il licenziamento in massa dei 182 orchestrali e coristi deciso dal consiglio di amministrazione dell’Opera di Roma. Claudio Orazi, il sovrintendente del teatro Verdi, ha una posizione chiarissima: «Penso che le riforme di un settore tanto strategico come quello della cultura, indicata addirittura come la maggiore industria del Paese, debbano passare attraverso il Parlamento. La politica si deve assumere le proprie responsabilità, deve illustrare le diverse posizioni e andare in Aula per votarle motivatamente. Tutti devono fare sacrifici, ma non si può passare attraverso forme surrettizie di riforma. Parlo della lirica, ma anche della prosa». E invece «negli anni abbiamo visto tantissimi tentativi e siamo transitati lungo molte esperienze, ma il settore resta sull’orlo del baratro».
Orazi, come giudica quanto è successo a Roma?
Non entro nel merito, l’Opera ha fatto quanto riteneva opportuno. Ma dico che le riforme si possono fare con, in alcuni casi senza, mai contro i lavoratori. Con i quali io sto. Negli anni le risorse pubbliche si sono ingiustificatamente contratte in ragione di una finanza pubblica che viene erosa a tutti i livelli: ma la funzione del Fus è ora decaduta e ci ritroviamo alla solita strategia, al tentativo di riformare surrettiziamente il settore anche con soluzioni - come nel caso di Roma - tecniche. Mentre questa è materia alta, politica.
E la politica?
Ecco: i lavoratori a Roma avranno compiuto i loro errori, i sovrintendenti anche, ma i contratti nazionali (delle masse artistiche, ndr) sono stati trattati dai rappresentanti dei soci pubblici, non è che i lavoratori abbiano trattato con gli alieni: che le colpe siano dunque tutti di questi ultimi, su questo c’è molto da discutere.
Al Verdi i lavoratori si sono fatti parte attiva nel percorso di risanamento del teatro, con sacrifici economici.
Infatti: dobbiamo trovare il modo in Italia per permetterci i teatri d’opera, ma discutendone con i lavoratori. A Trieste lo abbiamo fatto, abbiamo spiegato come stavano le cose, hanno capito: di premi di produzione non si può neanche più parlare. Poi però i percorsi tecnici, le cooperative di orchestre e cori di cui si parla a Roma, beh, sono cose da esaminare tecnicamente. Per esempio, non l’ha detto nessuno: questo è un settore senza ammortizzatori.
E si torna così all’esigenza di una riforma organica.
Guai se sotto le mentite spoglie di riforme surrettizie venisse leso un principio fondamentale, quello di un patrimonio di teatri lirici diffuso in tutto il paese. Qualcuno però deve assumersi responsabilità: l’allora ministro Massimo Bray disse che i teatri d’opera tutti vanno mantenuti. Qualcun altro sostiene che ne devono restare quattro o cinque? Bene, si vada in Parlamento e si voti. Ma no a una strategia di soffocamento per cui alla fine ci si trovasse con teatri morti, e con sindaci disperati nel dover scegliere se tenere aperto un asilo o sostenere un teatro. Tutti devono fare sacrifici, ma mentre il legislatore ha promesso e ripromesso negli anni di intervenire in maniera organica, il Parlamento non è ancora approdato a un progetto di nuovo inquadramento del sistema lirico sinfonico, e anche della prosa. I lavoratori hanno colpe tante quante ne hanno i sovrintendenti e i legislatori che sinora non si sono occupati della materia.
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