Se la città cala le braghe di fronte a una giunta che getta cloroformio sui delitti del fascismo

Qualcuno può azzardare un nesso tra ronde di oggi e squadracce di ieri. E questo fa paura a chi preferisce la melassa del “vogliamoci bene”

TRIESTE C’era da aspettarselo, date le premesse. Trieste va a ricordare l'abominio delle leggi razziali con un aborto di manifestazione. Un ritrovo di pochi intimi accanto a una lapide ben nascosta nel sottopasso del Municipio che i triestini conoscono come “el pisadòr”, leggi pisciatoio. Così, tra una festa della sardella e una Barcolana. Conclusione: con l’eccezione della Curia, della parte meno tremebonda della comunità ebraica, di qualche solitario liberale e di pochi uomini d’onore, la città che in una piazza osannante (sette ovazioni oceaniche) ha visto la proclamazione del razzismo come legge di Stato, calerà le braghe di fronte a una giunta che non gradisce la memoria.

Il putiferio è nato da un manifesto, quello del liceo Petrarca, che chiama le cose col loro nome. Ma cosa c’è di forte, di duro, di estremo nella verità storica, e cioè che dei triestini furono complici attivi dei nazisti nell’espulsione e poi nella schedatura degli ebrei in vista dell’annientamento, e non pagarono mai il conto con la scusa dell’italianità da difendere contro gli slavo-comunisti alle frontiere? Meglio non ricordare che una parte della città ha tratto durevoli vantaggi economici e di carriera dal provvedimento fascista. Qualcuno magari potrebbe azzardare un nesso tra le ronde di oggi e le squadracce di ieri. Non sia mai. Il fatto è che quel nesso è svelato non dal manifesto, ma dalla reazione della giunta. Se non ci fosse un legame, non si sarebbe mostrata tanta coda di paglia e si sarebbe commemorato senza problemi l’infausto settembre che ci ha portati alla guerra, alla sconfitta e alla dannazione.

Il Sindaco si illude di poter tenere a bada i più estremi dei suoi compagni di coalizione. Beato lui. Anche mio zio Giorgio Pitacco, irredentista della prima ora e poi podestà di Trieste nel Ventennio, si illuse di controllare l’avanguardismo del manganello e dell’olio di ricino. Fu sconfitto. Sappia anche Dipiazza che i suoi galletti in giunta non hanno niente a che fare con la Destra occidentale, schierata a difesa dello stato di diritto e dei valori democratici. È gente per cui il potere mondiale è ancora “in mano a ebrei e massoni” (parole pronunciate sei anni fa a un comizio leghista dal vicesindaco Polidori, che però in questa occasione ha preso le distanze dal sindaco, definendo quelle inserite nel manifesto contestato delle «semplici foto che testimoniano un momento storico»). È un movimento illiberale, amico di Putin, vicino a post-comunisti come Orbàn. Non italianissimo, ma balcanico nell’anima.

So di rappresentare una minoranza. Vedo già le critiche sul web: il razzista sono io, perché il mio è un discorso che divide, eccetera. Non me ne frega niente. Su temi come questo è sacrosanto fare parte per se stessi e scavare un fossato visibile tra chi è per la libertà e chi è contro. Basta con questa melassa che proclama “vogliamoci bene”, se poi il 3 novembre si accolgono i portatori di odio in piazza per ricordare la fine della Grande Guerra. Non voglio avere nulla a che fare con chi - fosse anche la metà degli italiani - ritiene che blindare i porti sia cosa giusta.

Tra le sparate sui porti chiusi e il cloroformio sulla memoria del fascismo esiste un nesso trasparente. Chiudere le coste non significa solo tradire la nostra storia marinara e il nostro passato di “trasmigratori” (eufemismo mussoliniano). Significa prima di tutto far credere alla gente che i pericoli per il Paese siano tutti esterni. Significa impartire l’ennesima autoassoluzione agli italiani, alimentare in essi sterili vittimismi ed esentarli da ogni esame di coscienza. Come dire: tranquilli ragazzi, il male è fuori di noi. Riguarda stranieri, diversi, omosessuali, streghe, eccetera. Liberatorio.

Chiediamocelo. Come mai questa Italia taglieggiata dalle camorre e da eserciti di evasori, desertificata dalla grande distribuzione, divorata dall’incuria, governata da idioti talk show, saccheggiata dalle banche, bastonata dalle tasse, massacrata dalla burocrazia, spietata con i deboli e debole con i forti, come mai questa Italia espropriata del senso delle istituzioni e dei diritti del lavoro, derubata del futuro e della memoria nazionale, sedata dagli smartphone, ricattata da servizi deviati, ostaggio di sette innominabili e da inamovibili gerontocrazie, schiacciata da confraternite di fannulloni raccomandati, non pensa che ai gommoni dei disperati?

L’immigrazione senza regole è un problema serio. Siamo tutti un po’ stanchi di società parallele che mettono a rischio i nostri valori. Ma dove sono tutti gli altri problemi? I ponti crollano, il Paese va in tilt per una nevicata e abbandona le sue montagne per un terremoto, la barbarie galoppa sul web, le storie degli onesti sono derise o oscurate dai giornali, l’ignoranza dilaga mentre stimati capifamiglia picchiano gli insegnanti dei loro figli per un cattivo voto, i giovani devono cercare lavoro lontano dalla patria, emigranti anch’essi, ma questo Paese, anziché guardare ai propri difetti, se la prende con gli stranieri.

Il vicesindaco leghista va a farsi fotografare mentre intima a un bivacco di stranieri di sgomberare dalle Rive. Benissimo. Ma dov’è Polidori quando nelle notti triestine si scatena una movida che tiene sveglia mezza città? Dove sono le sue ronde? Vedono la droga, gli schiamazzi, la musica sguaiata fino all’alba, la volgarità, i giovani tramortiti dall’alcol, i tassisti cui tocca recuperare ragazzine schiantate sui marciapiedi? Che esempio diamo ai migranti se la nostra bella città si riduce a un divertimentificio senza radici, senza anima e senza storia?

Mio Dio, è così chiaro. Siamo di fronte a un colossale depistaggio a scopo elettorale. Gli imprenditori della paura urlano su twitter per dirottare sull’uomo nero - il più perfetto dei capri espiatori - la rabbia della gente che altrimenti li colpirebbe. Sparano rancori etnici, come nella vecchia Jugo, per non ammettere la loro incapacità e non dire che domani toccherà a noi emigrare, come i nostri nonni. Indicano colpevoli, anziché soluzioni. Proclami anziché fatti. E il popolo ci casca. Sconfortante. Goebbels aveva ragione.

Pensiamoci. L’Italia è l’unico Paese europeo che ha non uno ma due giorni della memoria. Bene, dirà qualcuno. Peccato che entrambi siano interpretati alla rovescia. Non per chiedere scusa, ma per domandare agli altri di scusarsi con noi. Sì, perché secondo questo teorema la Shoah fu cosa tedesca, così come le Foibe furono cosa slava. Questo è lo schemino assolutorio che circola da un decennio con la connivenza della Sinistra. Italiani innocenti, fascisti e comunisti. Di collaborazionismo guai parlare. Di nuovo l’auto-assoluzione.

È da prima del 1918 che la classe dirigente locale governa smistando rancori. Prima contro gli Austriaci, poi contro gli Sloveni, poi gli Ebrei, poi gli esuli istriani (accolti malissimo, non dimentichiamolo), oggi contro gli Africani o i Siriani esuli di guerra. Domani, fatalmente, aizzerà risentimenti contro quell’Europa che, avendo fatto i conti con la memoria, oserà smarcarsi dalle nostre pericolose amnesie e, avendo fatti i conti col proprio bilancio, oserà chiederci di stringere la cinghia. Anche in quel caso la colpa non sarà nostra ma dell’Unione matrigna.

Nella Comunità ebraica, esattamente come nel ’38 in Italia, c’è chi si illude di poter convivere con questo negazionismo anestetico. Siamo parte della classe dirigente, dicono alcuni ebrei, e nessuno ci potrà toccare. Oggi il nemico non siamo noi ma l’Islam, dicono altri. Il Sindaco è un simpaticone che va d’accordo con tutti, sussurrano in molti. E non comprendono che fatalmente questo indurirsi dei toni indotto dalle rodomontate di Salvini e dei suoi emuli locali finirà per ritorcersi contro di loro.

Ben diversi i toni nelle comunità ebraiche di Venezia, Milano o Torino. Lì hanno capito di avere una responsabilità storica nei confronti dell’intera comunità nazionale. Perché se persino gli Ebrei accettano di sorvolare su questo, allora cade anche l’ultimo argine di contenimento a un ritorno di regime autoritario nella Penisola e alla prospettiva, catastrofica, di una balcanizzazione dell’Europa. Perché è questo che potrà accadere, per la felicità di Putin, della Cina o degli Emiri che non vedono l’ora di riempire il nostro vuoto politico e fare di noi una colonia. È triste che tutto questo non si comprenda proprio nella città dove le Leggi della vergogna furono proclamate. —


 

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