Ronconi: «Smettere? Non posso, ho Falstaff»
Casa del Diavolo. E' là che bisogna puntare il dito. E poi, seguendo i tortuosi percorsi della cartina geografica, continuare finché non si trova l'indicazione Santa Cristina. Si dovrà quindi svoltare in una strada sterrata, che la mappa fa finire nel vuoto. O meglio, nel pieno delle colline umbre.
Così dovremo fare per arrivare all'appuntamento che Luca Ronconi ci dà in un ventilato pomeriggio d'agosto. Tra Gubbio e Perugia, il regista passa l'estate nel “buen retiro” della sua casa di campagna. Un paesaggio di grandi distanze e rari insediamenti umani. Poco più in là, un'altra stradina scoscesa porta alla fattoria ristrutturata che ogni estate accoglie giovani attori, registi, uditori, venuti quassù per le sessioni del Centro Santa Cristina. La scuola del maestro.
La strada per Santa Cristina attraversa boschi e costeggia Alcatraz, “università libera” e fattoria biologica e creativa che Jacopo Fo ha aperto da tre decenni e ha spesso visto ospiti anche il padre Dario e fino a qualche mese fa Franca Rame. Ora che lei non c'è più, Alcatraz ha l'aria un po' più dimessa di quando passandoci accanto la immaginavamo animata dalle battaglie civili e ambientali della famiglia Fo.
Poche centinaia di metri dopo, a destra, la stradina di terra battuta si apre come una fessura tra il verde, scende ripida a curve strette, e il fitto delle ginestre lascia visibili tracce sulla fiancata dell'auto.
C'è sintonia tra ciò che ci circonda e il carattere di Ronconi. Una solitudine sontuosa, occupata dal pieno della natura e da animati silenzi. La casa di pietra ha soffitti bassi e si allunga sul margine della collina. Pareti spesse, come si usava un tempo, e travi a vista. Ma soprattutto, attraversando i gradoni del giardino, l'idea di una selvatichezza regolamentata. Una geometria accurata che non tradisce il naturale, ma gli dà ordine. Così come i registi teatrali (e più in generale gli artisti) fanno con la vita. Che liberano dal caos e dal casuale.
«Se potessi, smetterei di lavorare» dice Ronconi, comodo sul suo divano, ma interiormente inquieto. Ottant'anni compiuti a marzo, il fisico appena appena provato da una lunga terapia medica a giorni alterni. Nessuno naturalmente lo costringe a continuare a far teatro. Se non lui stesso. Che ha già scavalcato il desiderio appena espresso e parla del prossimo “Falstaff” in programma a novembre al Teatro Petruzzelli di Bari. L'inquietudine del fare è il volano di una vita che dopo 120 regie di prosa, quasi altrettanti allestimenti lirici, gli impedisce la stasi della rilassatezza, il riposo dell'intelligenza. «Tra qualche giorno incomincio il lavoro residenziale con i ragazzi dell'Accademia Silvio D'Amico, un programma impegnativo che li terrà qui fino alla metà di settembre». E non occorre neanche chiedergli come saranno le lezioni, perché lui disegna già il percorso che va dalle favole di Andersen («magnifiche per esercitarsi attorno a un'intuizione») a testi rari e curiosi, mai allestiti in Italia. Come “Cuore infranto” dell'elisabettiano John Ford, tragedia dai risvolti taglienti e scandalosi, forse ancor più di “Peccato fosse una puttana” dello stesso autore, da lui già allestita in una versione doppia e sperimentale («C'è ancora tanto da scoprire nella metafora di quel titolo»).
Sono gli autori che occhieggiano dai libri sui tavolini tutto intorno e dagli scaffali che foderano la stanza. Il grande tavolo al centro è, invece, uno spazio vuoto, terreno denudato da ogni inciampo per chi, come lui, si accinge ogni giorno a una esperienza di lettura nuova. A un'avventura nuova.
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