Nel mondo dell’editoria la paura corre sul web come fossimo nel 1400

Giornali e libri in rapida trasformazione fanno tornare alla memoria la battaglia degli amanuensi contro la stampa

Il tramonto del 2012 contiene pure l’ultimo numero di carta di Newsweek. La prossima edizione dello storico settimanale americano, in edicola dal 1933, sarà esclusivamente in versione digitale e ci chiama a ragionare, una volta ancora, della fine del giornale e del libro cartaceo. E ci riporta alla seconda metà del XV secolo e all’ingresso in Italia del libro “industriale”, stampato sotto forma di ingombranti e complicati incunaboli.

La porta di ingresso sta a Venezia. In laguna l’ars typograhica genera una sorta di euforia nel monaco camaldolese Nicolò Malerbi, che, intuendo le potenzialità della diffusione del messaggio evangelico implicita nella riproducibilità industriale del manufatto artigianale "libro", nel 1471 traduce in volgare per intero la Bibbia nel 1471. La edita Vindelino da Spira, fratello e erede di quel Giovanni da Spira che per primo ottiene dalla Serenissima Repubblica la licenza di stampatore. Giovanni da Spira, infatti, già nel 1469 stampa le Epistulae ad familiares di Cicerone e la Naturalis Historia di Plinio, in forza di un monopolio di ben 5 anni sulla nuova e rivoluzionaria tecnica. Ma è la stampa della Bibbia che segna un punto di svolta, perché parliamo di un oggetto dedicato a un pubblico vastissimo.

Il monaco Malerbi, membro della comunità di San Mattia a Murano, intuisce la potenza del mezzo, che si sostituiva agli sforzi disomogenei dei copisti. Ma a Murano si trova pure un fiorente monastero benedettino, intitolato ai santi Cornelio e Cipriano, che ospita pure il domenicano frate Filippo da Strada. Di origine lombarda, abile calligrafo e copista, vissuto tra metà '400 e inizi del '500, attivo tra Ferrara, Adria, Venezia e Zara, il predicatore Filippo da Strada è il campione degli intellettuali avversi alla nascente industria a stampa, che ritiene fucina di oggetti intimamente corrotti e corruttori. Va da sè, infatti, che mancando il filtro dei copisti hanno più facile pubblicazione pure i più licenziosi e lussuriosi degli autori classici, da Ovidio a Tibullo a Catullo, così come il peccaminoso Boccaccio.

Ma nella polemica di Filippo da Strada vi è anche altro. Lo scriba aristocratico tenta di opporsi alla commistione tra commercio minuto e parola scritta, tra diffusione popolare e cultura riservata a una élite. A suo avviso, il copista è il fedele riproduttore del testo, la stampa industriale contiene invece in sè il germe dell'errore: alla rapidità della esecuzione corrisponde anche l'inevitabile approssimatezza testuale, la carenza di controlli, la standardizzazione degli apparati illustrativi e grafici. L’amanuense cura ogni singolo pezzo come se fosse unico, in una logica migrante tra artigianale e artistico (a seconda della levatura del copista). L’industria tipografica immette, per converso, il concetto di serialità e di appiattimento qualitativo.Va pur detto che il pensiero di frate Filippo cozza frontalmente con la posizione di tanti intellettuali di primo piano: per esempio, un filosofo della levatura di Marsilio Ficino nel 1492 definiva l'invenzione della stampa come una de. lle prime grandi imprese della età dell'oro.

In qualche modo, la contesa tardo-quattrocentesca di cui parliamo andava prefigurando quel che Walter Benjamin avrebbe trattato quasi cinque secoli dopo nel suo storico saggio intitolato "L’opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica". Benjamin si sarebbe occupato nel 1935 di fonografi, cinema, fotografia e avrebbe illuminato come la relazione e tra artista e mezzo, ma anche tra opera d'arte e pubblico, stava andando mutando radicalmente. Ma per certi versi Filippo da Strada poneva, con punti di vista e approdi differenti, una questione non dissimile.

Filippo da Strada rivolge direttamente al doge Marcello una accorata denuncia in cui contesta la "falsificazione" implicita nel lavoro di edizione a stampa e chiede esplicitamente il bando delle attività tipografiche da Venezia. La Serenissima tendeva a regolamentare le iniziative economiche in modo da pianificare e favorire lo sviluppo della Repubblica, incentivando le nuove tecnologie: quel che oggi chiameremmo politiche industriali.

Potremmo parlare, a proposito dell’impronta culturale di fondo espressa dal domenicano Filippo, di un atteggiamento reazionario dinanzi al potere del libro a stampa, accusato di corrompere le coscienze, sorta di flagello apocalittico, segno della fine dei tempi. Venezia viene vissuta come la nuova Babilonia affollata di merci e mercanti pronti a tutto per denaro, pure alla odierna pornografia. Il frate domenicano aveva invece una concezione aristocratica, elitaria e "privatistica", nel senso che sul pubblico interesse voleva far prevalere una dimensione prettamente monopolistica qual era il ristretto collegio dei copisti.

L'affermazione delle tipografie, infatti, dal punto di vista economico implicava pure la decadenza delle biblioteche conventuali e monastiche in cui operavano i copisti, il cui lavoro prezioso e raffinato sarebbe stato sostituito dal lavoro seriale delle macchine. "Va in esilio la superiore arte dei copisti, che non conobbero mai nessun'altra attività che lo scrivere bene" scrive frate Filippo al doge Marcello nella sua supplica. E aggiunge: "la scrittura è pura se praticata con la penna, è meretrice quando viene stampata. Non devi forse definire prostituta quella che simula di amarci tanto, dedita solo al guadagno rapace?". Il doge Marcello vide lontano e, scontentando frate Filippo e il sistema economico/culturale difeso dal predicatore domenicano, seppe garantire a Venezia un ruolo privilegiato nella fabbrica della cultura europea.

Parafrasando Marshall Mac Luhan, possiamo ben dire che per essere un buon profeta non bisogna mai predire nulla di nuovo e dunque leggere la storia di frate Filippo come narrata in “Stampa Meretrix” (Marsilio editore). Torniamo ora ai giorni nostri e guardiamo al mercato del libro, che in Italia valeva lo scorso anno 3,3 miliardi (-4,6% dato d’assieme, con appena 12,6 milioni di ricavi dall’embrionale settore e-book). Possiamo aggiungere che, sempre in Italia, dal 2006 al 2011 la vendita di giornali quotidiani è arretrata di un milione di copie (consiste oggi in circa 4,5 milioni), mentre su 100 euro investiti in pubblicità nel 2002 oggi ne sono rimasti 58. In parallelo occorre leggere quel che avviene nelle odierne emule di Venezia. Il 14,2%  della diffusione complessiva dei quotidiani Usa nel marzo 2012 era riferita a edizioni tablet o Smart phones, web a pagamento, Pdf. Tendenza in potente crescita. Di questi tempi, tutti gli editori del pianeta tentano di risolvere il rebus aperto dall’avvento di internet, che propone agli internauti l’informazione come un bene disponibile sempre e gratis. Ma per definizione non esiste alcun bene o servizio la cui produzione non costi nulla. Vedremo come il rebus sarà risolto, se e con quali tecniche saranno regimentati i moderni Francis Drake che scorrazzano per i mari della Rete e depredano i galeoni degli editori. Sono in corso le più differenti sperimentazioni. L’inglese Guardian mette a disposizione gratis tutti i contenuti sul proprio sito, il Times invece dal 2010 fa pagare la lettura degli articoli (ha registrato 101mila abbonamenti digitali ma ha perso traffico), il New York Times ha adottato il modello freemium ossia consente di leggere gratis un certo numero di articoli e poi richiede un abbonamento (conta 454mila abbonamenti digitali).

L’editoriale di Tina Brown per l’ultimo numero di Newsweek, riassume nel titolo il senso di “un nuovo capitolo”, posto che “a volte il cambiamento non è solo buono, ma è necessario”. Del resto, concludendo con un pensiero di Noam Chomsky, “la strada della passività può essere la più facile, ma non è certo la più degna”.

p_possamai

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Riproduzione riservata © Il Piccolo