Migliaia in marcia sulla rotta dei Balcani

DAL CONFINE SERBO-UNGHERESE. All’orizzonte, in un punto impreciso in cima all’argine del fiume Tisa, un alone blu si muove lentamente. Come un occhio sfuocato, la luce, indistinguibile da qui, sembra frugare sulla riva a qualche centinaio di metri di distanza. Immobile e in silenzio, il gruppo assiste preoccupato alla scena. Il blu non è un colore rassicurante questa sera, come non sono il rosso delle auto e il bianco dei rari neon. Nessuno dei sessanta migranti diretti all’Ungheria si azzarda dunque a fare un passo, mentre chi sa la strada riflette sul da farsi. Cinque ore prima, la marcia inizia al centro di accoglienza di Kanjiža, inaugurato appena qualche giorno fa in questa cittadina nell’estremo nord della Serbia. Robert Lesmajster sta indicando ai nuovi arrivati le regole del campo, mentre un folto gruppo varca in direzione opposta l’ingresso alle sue spalle. «Questo posto non è una prigione», spiega il rappresentante del Commissariato per i rifugiati di Belgrado. L’insieme di tende di cui è responsabile è un luogo di transito, che offre acqua, servizi igienici e una connessione ad internet. Un centro voluto delle autorità serbe per svuotare i paesini della zona, altrimenti gremiti di migranti in viaggio sulla cosiddetta “rotta dei Balcani”.
A Kanjiža, poche persone restano per più di un giorno, il tempo necessario a riposarsi, prima di affrontare gli ultimi 15km che mancano all’ingresso nell’Unione europea e nell’area Schengen. Alle nove di sera, la piccola comitiva che si riunisce fuori dal campo è composta soprattutto da siriani, quelli che meglio di tutti hanno preparato la loro odissea. Telefonini e Gps alla mano, con uno zaino o un bambino sulle spalle, si scambiano gli ultimi consigli prima della partenza. Poi, a passo spedito, si raggiunge la strada asfaltata e la si segue verso Nord, mentre auto e camion sfilano a fianco rallentando, gli abbaglianti accesi. La prima sosta è vicino al letto del Tisa, che attraversa perpendicolarmente il confine. Vi si è arrivati dopo una svolta improvvisa, non segnalata, e seguendo per qualche minuto una stradina di ghiaia. «Da qui in poi è pericoloso», spiega un ragazzo con un cappellino bianco in testa. Sarà una delle guide per tutto il viaggio. «Non camminate troppo sulla destra perché c’è il fiume e spegnete i cellulari». Si fuma una prima sigaretta, poi si riprende a camminare, sotto un cielo terso e attraversato continuamente da stelle cadenti. «Sei sposato?», chiede Omar, uno dei pochi iracheni presenti, indicando l’anulare privo di anelli. Lui, che ha poco più di vent’anni, spera di trovarla presto una moglie. Sta camminando in infradito, però assicura, ridendo, di avere le scarpe nello zaino. «Anche l’Italia ci ha attaccati, ma gli arabi sono buoni», tiene a precisare in un inglese incerto.
Da Bagdad, è diretto verso Nord, forse in Germania. Come molti altri, non vuole dare le proprie impronte digitali alla polizia ungherese. Perché, in quel caso, stando a quanto prevede il Protocollo di Dublino, dalla Germania potrebbe essere deportato in Ungheria, fino al completamento della procedura di richiesta di asilo. Ma sfuggire alla polizia magiara non è facile. Ai lati del sentiero, giacciono decine di bottiglie di plastica vuote, segno che non siamo i primi a seguire questo sentiero, che gli agenti locali sicuramente conoscono. Inoltre, una volta passato il confine, resteranno comunque altri 20km prima di arrivare a Szeged, la città da cui partono i treni per Budapest. Omar ha attraversato almeno quattro Paesi nelle ultime settimane e non sarà sul fiume Tisa che si fermerà. All’ennesima sosta, dopo la mezzanotte, un ragazzo si butta per terra, sfinito. É Mustafa. Ha una protesi alla gamba destra e non ce la fa più.
Il suo amico, che tiene per mano la moglie e la figlia, si volta e chiede: «Potete aiutarlo, per favore?». Mustafa ha la schiena bagnata e ripete “yalla”, stringendo i denti. Lo si solleva da entrambi i lati e si riparte. Ma non è l’unico ad essere in difficoltà: i bambini, silenziosi fino a quel momento, cominciano a trascinare i piedi e non vogliono più avanzare su quella strada buia e piena di zanzare. Il piccolo Zakaria (un anno, forse due) inizia a piangere verso l’una di notte, lanciando un grido che rompe il silenzio. Il gruppo si blocca, impietrito, e subito quattro, cinque persone arrivano in soccorso ai genitori. Ma ogni boccaccia, ogni parola sono inutili. Zakaria ha paura perché dalla foresta, al di là del fiume, arrivano i latrati e gli ululati rabbiosi dei cani. Chi può accelerare il passo allora lo fa, perché quel bambino rischia di rendere vane quattro ore di cammino. L’agognato annuncio “Siamo in Ungheria!” arriva qualche decina di minuti più tardi. Chi ha il Gps in mano ne è sicuro, anche se è impossibile verificare: sull’argine non ci sono né cippi né bandiere. Comunque sia, non c’è tempo per festeggiare, i primi centri abitati sono ancora lontani e si deve continuare a camminare. La famiglia di Zakaria (ora più calmo) raggiunge il gruppo, ma questo, improvvisamente, si ferma di nuovo. All’orizzonte, è comparsa la misteriosa luce blu e anche chi guida la fila non sa più che fare. “Entriamo nella foresta”, suggerisce qualcuno. “No, continuiamo”, gli risponde un’altra sagoma nera. Sono lunghi attimi di esitazione, poi l’alone blu si spegne e il gruppo decide di proseguire sulla stessa via.
Ma qui, le nostre strade si separano. Seguirli oltre, potrebbe voler dire essere scambiati per dei trafficanti di esseri umani. Due persone afferrano Mustafa che ancora zoppica, ci si scambia qualche saluto frettoloso, poi, si riparte in direzioni opposte. Un quarto d’ora più tardi, sulla strada del ritorno, il suono di una sirena bucherà nuovamente il silenzio, come aveva fatto il pianto di Zakaria.
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