Marco, Alessandro, Dario: quelle tre vite cancellate da una granata 25 anni fa

Luchetta, Ota e D’Angelo furono uccisi il 28 gennaio 1994 a Mostar, dove erano andati per raccontare la guerra. Fra l’incontro con un convoglio della Croce Rossa e la deflagrazione, il miracolo di un bimbo rimasto vivo

LA vicenda

GIOVANNI MARZINI*

Oggi Marco di anni ne avrebbe 66, Alessandro 61 e Dario dieci di più. Probabilmente Marco sarebbe già in pensione, Dario di sicuro, a fare il nonno. Saša forse no: le telecamere oggi sono più leggere rispetto a 25 anni fa e, schiena permettendo, la sua passione per foto e riprese sarebbe stata più forte della voglia di riposo. Certo, Marco pensionato faccio fatica a immaginarmelo. Al pari degli altri due. Forse perché da 25 anni siamo qui a ricordarceli con le foto e le immagini di allora. Per noi son rimasti sempre uguali, con quel mezzo sorriso dietro la frangetta dei primi due e quello sguardo mite del più “anziano” del gruppo.

28 GENNAIO 1994

Stavano tornando a casa, ancora una volta, com’era accaduto alla vigilia di Natale: Mostar Est restava invalicabile, stretta in un assedio che durava da mesi. Ci avrebbero riprovato in futuro: quello speciale sui bambini vittime della guerra che il Tg1 aveva commissionato alla troupe della Rai di Trieste, Marco voleva completarlo. Aveva le immagini e le interviste realizzate nell’ospedale di Mostar Ovest. Mancava il resto, tutto il resto. «Se non mostriamo come vivono intere famiglie in quei rifugi sotto le bombe, il servizio non sta in piedi...». Me lo aveva confessato il giorno prima di partire.

E adesso, mentre già erano risaliti in macchina diretti verso Trieste, ecco l’opportunità. La troupe incrocia un convoglio della Croce Rossa che sta per entrare nella città assediata. Marco avvicina il responsabile, un italiano che aveva conosciuto in una precedente missione. «Possiamo portarvi dentro con noi – aggiunge – ma abbiano un’ora, non di più, di cessate il fuoco». Marco deve decidere, è il giornalista il capo troupe. Si consulta con i colleghi. Che non si tirano indietro.

Salgono sul blindato che guiderà la colonna. Marco spiega che deve raggiungere l’indirizzo dove si trova una sorta di rifugio che ospita diverse famiglie. Si trova nel semi interrato di un palazzo di cinque piani, nel pieno centro di Mostar Est: un quadrilatero di palazzine circonda una vasta androna con un terrapieno rialzato che funge da parcheggio, adesso quasi deserto.

La troupe entra in quell’enorme cantinone: ci saranno almeno una decina di bambini, con mamme e nonne. Gli uomini non ci sono: quasi tutti combattono o sono scappati in cerca di un rifugio dove portare un domani le loro famiglie. Saša inizia a girare, ma di luce ce n’è poca. Fuori è tutto tranquillo: la giornata è grigia, fredda, senza sole, senza vento. Escono. Ota non ha nemmeno il tempo di accendere la telecamera per filmare quel bimbo che li ha seguiti nel cortile. Il sibilo della granata squarcia quel silenzio irreale che precede l’esplosione, violentissima: il proiettile colpisce lo spigolo del terrapieno rialzato e moltiplica la quantità di schegge che li investono. Traiettoria chirurgica, non casuale, verrebbe da pensare; a dispetto di un “cessate il fuoco” che è durato dieci minuti, non certo un’ora.

Qualche metro più in là, quel bimbo di quattro anni si salva miracolosamente: resta intontito dalla deflagrazione, per mesi avrà problemi di udito, ma sua madre può correre ad abbracciarlo. A terra restano invece loro tre.

IL PRIMO OSPITE

Zlatko Omanović, il bimbo di Mostar, oggi ha quasi trent’anni e vive in un villaggio nei pressi di Goteborg, in Svezia, con i suoi genitori. È alto un metro e novanta, pratica il pugilato. Gli è servito molto per scaricare lo stress e gli incubi di un’infanzia non facile, dopo quanto vissuto. Zlatko è stato il primo ospite della Fondazione nata 25 anni fa per ricordare Marco, Saša, Dario e quel Miran Hrovatin ucciso il 20 marzo del 1994 a Mogadiscio con Ilaria Alpi.

A Trieste, grazie alla Fondazione, Zlatko ricevette le prime cure dopo esser riuscito a lasciare Mostar con la madre; e alla onlus triestina la famiglia Omanović deve il suo ricongiungimento, avvenuto poche settimane dopo, nel nord della Svezia, a Lulea, dove con un amico di Saša Ota, l’operatore Rai Marino Macchi, andai a trovarlo quando di anni ne aveva quasi sette: quasi per voler idealmente completare quel servizio che Marco aveva lasciato a metà.

Zlatko Omanovic e Andrea Luchetta, dieci anni dopo essersi incrociati bambini, si rivedono a Trieste, sul palcoscenico del Premio giornalistico intitolato a Marco.

Nasce una spontanea amicizia. Continueranno a scriversi a lungo via mail, prima di tornare assieme in quel cortile di Mostar, davanti alla targa che ricorda quella data, 28 gennaio 1994: rimangono in piedi vicini l’uno all’altro, in silenzio per qualche istante. Poi Zlatko lascia l’amico da solo e al fianco di Andrea rimane seduto a fargli compagnia solo un cane randagio. Si è incollato al figlio di Marco e non lo molla di un metro, anche quando Andrea inizia ad allontanarsi. E a quel punto non ci pensa un minuto di più: lo carica in macchina e se lo porta a casa. Lo chiamerà Stari, come il vecchio ponte sulla Neretva, abbattuto e poi ricostruito a Mostar.

Oggi il fedele Stari vive con Andrea a Roma, dove il figlio di Marco è un apprezzato giornalista a Rai Sport. Il patrimonio genetico avrà pure un significato, no? E non sarà certo un caso se la primogenita di Marco, Carolina, ha lavorato per anni in Toscana a un progetto finanziato dal Comune di Prato sull’accoglienza e l’integrazione di cittadini stranieri e adesso a un progetto Sprar a Firenze, come quello attivato con la Fondazione che porta il cognome di Carolina in provincia di Trieste, nel comune di Sgonico.

RICORDO E LAVORO

Dopo Zlatko la Fondazione Luchetta Ota D’Angelo Hrovatin ha ospitato, curato e guarito quasi un migliaio di minori in 25 anni di attività. Lo ha fatto esclusivamente grazie alla generosità di una città come Trieste che è e resterà per sempre, un porto di mare. Sinonimo di accoglienza. Anche se tanto è cambiato rispetto a 25 anni fa.

Sulla scia dell’America First di mister Trump, il nostro “prima gli italiani” non pare esser da meno e anche una onlus come quella triestina deve fare i conti con umori e sensibilità che non sempre sposano i valori della solidarietà. Eppure, più dell’ottanta per cento degli italiani dice di apprezzare e condividere il messaggio e le parole di Papa Francesco. Ecco, forse solo le parole.

Ma la testardaggine di chi ha fatto nascere tutto ciò per adesso è più forte del complesso e difficile momento che non solo Trieste, ma l’intero Paese e la stessa Europa sta passando. Ecco perché, nel nome dei quattro nostri amici, la missione continuerà. Se non altro, per la testarda determinazione della presidente che la guida.

Così come continueremo a ricordare e difendere la professione scelta dai quattro. Lo stiamo facendo da quindici anni con un premio giornalistico internazionale che ha ospitato a Trieste fino a oggi almeno un centinaio di colleghi che continuano a illuminare con i loro reportage i troppi drammi e le enormi ingiustizie che nel mondo colpiscono i più indifesi.

E allo stesso modo, quello che è lo spin-off del premio, Link, il festival dedicato al giornalismo quest’anno giunto alla sesta edizione, non smetterà di sottolineare e difendere l’esigenza di garantire alla gente un’informazione eticamente corretta e consapevole, anche nell’era della cosiddetta comunicazione “diretta”.

Non potremo mai sapere cosa possano pensare Marco, Saša, Dario e Miran di tutto quello che abbiamo costruito nel loro nome. Ma di certo possiamo dire che averli ricordati in questo modo, così a lungo e con lo stesso amore per tanti anni, ci ha fatto stare tanto bene. E credetemi, non è cosa da poco... —

*tra i promotori della Fondazione Luchetta, Ota, D’Angelo, Hrovatin e segretario della giuria del Premio giornalistico internazionale Marco Luchetta



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