L’umanità perduta tra individualismi e relazioni sociali

Se diciamo che oggi manca il “calore umano” ci comprendiamo immediatamente
Pier Aldo Rovatti

TRIESTE Nel lontano 1956 Günther Anders aveva intitolato “L’uomo è antiquato” un libro che continua a essere attuale. Grandi parole come “uomo”, “umanità”, “umano”, possiamo ritenerle ancora parole piene di significato, nonostante suonino vecchie, svuotate, quasi cancellate dalla complessa artificialità di un mondo che ormai adopera il linguaggio della post-umanità. Sono diventate simili a espressioni retoriche, generalizzanti, senza concretezza.

Eppure se diciamo, per esempio, che oggi manca il “calore umano”, ci comprendiamo immediatamente: l’altra o l’altro che abbiamo vicino capisce bene di che cosa stiamo parlando, senza tanti fraintendimenti. Voglio solo osservare che, se l’uomo è antiquato, qualcosa che ha a che fare con l’umanità è rimasto ben presente e non possiamo spazzarlo via con un colpo di spugna. Certo bisogna intendersi dove stia qui la linea di confine tra la retorica e la realtà.

I gesti che definiamo “umani” e perfino le pratiche “umanitarie” sono spesso atteggiamenti consolatori che possono rivelare soprattutto l’esigenza di promuovere noi stessi al ruolo di “anime belle”. Importanti, utili socialmente, è innegabile, tuttavia si tratta di gesti e di pratiche che non ci esonerano dall’interrogarci su quale idea abbiamo di “umanità”. Se prendessimo sul serio questa domanda saremmo alquanto imbarazzati nel dare una risposta davvero convincente, per il semplice motivo che qui ne va nientemeno che delle nostre idee di individuo e di società.

E oggi tali idee sono assai poco entusiasmanti: siamo infatti diventati tutti individualisti in una maniera molto preoccupante, con la conseguenza che la nostra attuale socialità si è trasformata in qualcosa che si allontana sempre di più da una relazione profonda e reciproca tra noi e gli altri.

Ogni giorno, se avessimo tempo e voglia di osservare chi siamo e come stiamo cambiando, possiamo constatare quanto salga il tasso di egoismo e come la perdita del nostro senso di umanità accompagni necessariamente questa crescita.

Se riusciamo a metterci realmente di fronte a una simile contraddizione, forse possiamo verificare che si tratterebbe di iniziare a portare avanti un lavoro rivolto a noi stessi, almeno un tentativo di moderare, non dico di arrestare, la deriva individualistica che attraversa ormai le vite di ciascuno.

Per tornare al piccolo esempio che ho fatto all’inizio, come dovremmo cambiare noi stessi per non limitarci a osservare dall’esterno l’esperienza del “calore umano”? Credo che, per entrare davvero in un’esperienza pur così banale a prima vista, dovremmo abbassarci al livello effettivo della relazione, poiché si tratta precisamente di un esempio di relazione che chiede a ciascuno di contenere il più possibile il desiderio narcisistico. Il che normalmente non accade con la conseguenza che la socialità scompare (e la parola “umanità” si riduce a un soffio d’aria).

Se ci accorgessimo davvero che ormai tutti partecipiamo a una macchina (qualcuno la chiama “macchinazione” per salvarsi l’anima) che sta evacuando la socialità grazie a un’invasione individualistica ritenuta buona e produttiva, cozzeremmo pesantemente contro il fatto che, se pure l’uomo è antiquato, una forma di “disumanità” sta diventando sempre più attuale, con l’aggravante che di solito consideriamo tale deficit di umanità qualcosa di bello e di buono, soprattutto qualcosa di estraneo alla nostra etica compiacente.

E se ci svegliassimo una mattina scoprendo di essere trasformati in una sorta di scarafaggio?

E se – Kafka insegna – ci accorgessimo che non è stata una sfortunata disgrazia notturna, bensì un cambiamento che ci siamo costruiti con le nostre mani giorno dopo giorno, ora dopo ora, e di cui andiamo anche fieri? L’individualismo rampante, che attraversa i corpi e le menti di ciascuno di noi, è una brutta bestia. Sì, ma – sembra di udire – ci fa tanta compagnia, perfino talvolta ci tiene un po’ allegri, comunque fa la guardia contro eventuali invasioni del nostro campetto.

Dove sono finite le famose “relazioni sociali”? Come è possibile occuparsi di faccende culturali, magari anche entrare in un’esperienza politica, senza metterci criticamente di fronte all’attuale narcisismo individualistico e all’idea ormai prevalente di una socialità più vicina a una pratica dei social che a un’effettiva relazione tra i soggetti? Insomma, con che cosa stiamo sostituendo l’antiquata idea di uomo e di umanità?

Riproduzione riservata © Il Piccolo