Limonov, la voce dell'homo sovieticus

Chi sogna di restaurare il comunismo è senza cervello, chi non lo rimpiange è senza cuore. Vladimir Vladimirovic Putin
Crisi? No. Degenerazione totale della nostra nazione russa. Lunga, dolorosa degenerazione. Stiamo morendo, uccidiamo i nostri bambini: quattro milioni di bambini l’anno. Nel 2040 saremo appena 60 milioni, non 130 milioni come oggi. E vicino a noi vive l’Asia. Spietata, crudele, ricca di figli, con donne obbedienti e coraggiosi, fanatici, uomini guerrieri. La religione dell’Islam fa la guardia con severità all’Asia, il codice della Shariat dà ad essa la forza morale e il comando su oltre un miliardo di anime. Noi guardiamo con invidia all’Asia. Un giorno qualcuno pazzo come Limonov obbligherà i russi a convertirsi all’Islam, e porrà fine alla nostra “crisi”. A quel punto noi mangeremo voi Occidentali, carissimi Yankee e arroganti Europei. Eduard Veniaminovic Savenko, detto Limonov (1998)
Limonov è il libro di uno scrittore francese, Emmanuel Carrère, che parla di uno scrittore francese, Emmanuel Carrère. O forse non è proprio così.
Il libro racconta le gesta dello scrittore russo Eduard Limonov, ma tra le tante chiavi di lettura possibili per questo complesso romanzo-biografia a me interessa in particolare osservare l’osservatore. L’intellettuale francese, borghese e liberale che con curiosità e apertura mentale invidiabili decide di narrare le vita di un poeta russo, romanziere, proletario, emigrante, nostalgico dell’impero sovietico e fascista.
L’occhio sempre rivolto al suo lettore parigino, Carrère non dimentica mai di tracciare una linea di separazione tra sé e l’oggetto della sua ricerca. Ogni volta che il fanatico russo dagli occhi spiritati (figlio di un agente del Nkvd) rimpiange la purezza dell’era sovietica e attacca gli intellettuali occidentali per la loro odiosa abitudine di denigrare Stalin, Carrère (figlio di un’esule russa sfuggita alla Rivoluzione) ricorda a chi legge che il punto vista di Eduard è minoritario: mutilato dall’esser stato figlio di un čekista, e quindi dall’aver vissuto in una famiglia risparmiata dalla marea del Terrore.
Eppure le cose sono più complicate di così (e con questa frase mi guadagno l’etichetta di “quello che la sa lunga”, che Carrère appioppa con ragione a chi si aggrappa alla complessità della storia per giustificare atti ingiustificabili come il bombardamento serbo di Sarajevo o la repressione operata dal regime di Assad in Siria). Le cose sono più complicate di così ed è uno dei fattori che rendono Limonov un libro tanto interessante.
Quando l’autore accusa Limonov di essere parziale, dà per scontata l’oggettività del proprio punto vista, poggiato su milioni di pagine vergate da dissidenti, ex prigionieri politici e storici autorevoli come Robert Conquest e la madre di Carrère stessa. Pagine che raccontano come l’Urss fosse l’inferno sulla terra.
Carrère non considera mai la possibilità che anche il suo osservatorio possa essere viziato dall’essersi formato in buona parte sulle opinioni di intellettuali che vissero in un sistema politico che nell’intellettuale vedeva, di volta in volta, un nemico o un soggetto improduttivo. L’autore rifiuta almeno formalmente di prendere in considerazione la possibilità che l’opinione sull’Urss dell’homo sovieticus (quello che non ebbe la sfortuna di incappare nella macchina del Terrore) sia stata a lungo molto più vicina a Limonov che a Solženicyn.
A tal proposito è illuminante un passaggio del libro che racconta del ritorno di Limonov in Russia in piena Perestrojka: all’arrivo nella sua città d’origine, il protagonista scopre che i suoi genitori proletari, e quasi tutti i proletari sovietici, detestano il Gorbačëv tanto amato dall’Occidente.
L’homo sovieticus, in fondo, era confortato dall’idea di far parte di un sistema che pur con le sue pecche garantiva a tutti un livello medio di vita (tranne che ai “nemici del popolo”, ovviamente), dall’essere parte di un esperimento grandioso e di un impero che incuteva timore e rispetto a tutto il pianeta. Questa sintonia con il popolo, per certi versi, fa di Limonov un intellettuale simile ai “filosofi re” (come li definisce la storica Rita Di Leo nel suo eccellente saggio L’esperimento profano) che fecero la Rivoluzione e di cui lo scrittore russo si considera l’erede. Queste le mie considerazioni sul modo in cui l’osservatore osserva il suo oggetto.
Quanto all’oggetto in sé, Eduard Limonov, la sua vicenda si estende dalla provincia sovietica staliniana alle peggiori periferie statunitensi. Dai salotti degli intellettuali parigini alle stragi dei paramilitari serbi in Bosnia e Croazia. Dagli hotel di lusso ai gulag della Russia putiniana. Dall’assedio di Sarajevo alle pendici della catena dell’Altai, nel cuore dell’Asia. Emmanuel Carrère scrive questa vita in modo eccezionale, dando a Limonov quell’aedo disincantato e un po’ cinico che in fondo al cuore aveva sempre sperato di trovare. E racconta a noi una grande storia sulla fine del Novecento e sui nostri tempi strani.
Eduard Limonov è un poeta. Eduard Limonov è un buffone. Eduard Limonov è capace di atti ammirevoli o orribili. Eduard Limonov offre risposte tragicamente sbagliate e domande tragicamente lucide. Eduard Limonov è un fascista, a tratti ridicolo e a tratti agghiacciante, e il suo pensiero è un calco da manuale di quanto scritto da Furio Jesi in Cultura di destra.
Eppure le cose sono più complicate di così.
(Recensione del dicembre 2012)
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