Le trasgressioni anni ’80 dai club in passerella

LONDRA. Dal club alla passerella senza distinzione di classe o genere, solo con la voglia di divertirsi e di esprimere se stessi. È un inno agli anni spensierati, giocosi e ad alto tasso di trasgressività (e abuso di stupefacenti) quello messo in mostra da “Club to Catwalk: London Fashion in the 80s” al Victoria and Albert Museum di Londra fino al 16 febbraio (www.vam.ac.uk). Un piccolo spazio – se comparato a quello di “David Bowie Is” ai suoi ultimi giorni di programmazione – che riesce comunque a incuriosire.
Dimenticatevi le spalline imbottite, così come i colori sgargianti a cui siamo abituati. Qui c'è poco o niente di tutto ciò. Lasciatevi invece trasportare dalle note degli Eurthymics - e dai maggiori successi della disco dance dell'epoca tra cui spuntano Boy George, gli Spandau Ballet e l'immancabile Bowie - alla scoperta di una moda diversa, più d'impatto, “di strada”.
Ed è proprio questo il punto focale dell'esibizione. Un pout pourri di colore, eccesso, stravaganza, giovinezza, euforia, musica. Articolata su due piani, l'esibizione raggruppa una novantina di abiti che formano una panoramica della moda “da club” di quel periodo e della forza generatrice e rivoluzionaria che essa ha portato con sé. Così forte, da sbarcare in passerella e poi, reinventandosi senza sosta, giungere fino ai giorni nostri.
Non è difficile, infatti, a oggi avvistare t-shirt con slogan propagandistici o Smile colorati, salopette, vestiti borchiati o indumenti “customizzati” su teen ager, così come su donne e uomini con tante primavere. Raro, invece, è trovare qualcuno che ti dica da dove tutto ciò provenga.
Wendy Dagworthy, ex designer di tessuti, ora insegnante al prestigioso Royal College of Art (dopo una lunga esperienza da preside al Central Saint Martin's) ha avuto in mente proprio questo obiettivo. Nella sua ricerca – scaturita nella mostra del V&A – racconta di come gli anni '80 e la scena dei club siano stati il motore per quel tipo di moda che ci accompagna ancora dopo più di trenta decadi.
Un periodo d'oro, appoggiato dalle istituzioni. Il primo ministro dell'epoca, Margaret Thatcher – dichiarò che “la moda è importante perchè aumenta la qualità della vita (...), e inoltre procura lavoro a molti”.
Sempre in quegli anni Londra e la sua scena notturna registrano un fermento mai visto prima. I locali – tra i più famosi il Blitz e il Taboo - crescono come funghi e tutti sono i benvenuti, senza nessuna discriminazione se non quella “only the weird and wonderful” (solo gli strani e meravigliosi”). È qui che la creatività allo stato puro ha il suo trionfo, che inzia il trend del “DIY – Do it yourself” (fallo da te) applicato agli outfit serali – sempre eccentrici e mai scontati – che si indossano per andare al club. Tutti gli sforzi creativi sono finalizzati a quello, come ricorda Galliano: «Giovedì e venerdì, la scuola (Central Saint Martin's) era quasi deserta, eravamo tutti a casa a preparare gli abiti per il week end». Ci sono spille, borchie, magliette con slogan contro la politica del tempo – come quelle della designer inglese Katherine Hamnett che ne indossò una all’incontro con la signora Thatcher per protestare contro i missili Pershing degli alleati Usa - le prime scarpe ginniche di Vivienne Westwood con tre linguette e ispirate alla street dance, la prima collaborazione tra brand di moda (Levi Strauss) e designer organizzata dal magazine di lifestyle, Blitz Magazine. È il periodo dove ogni club dà vita a un genere diverso: New Romantics, Goth, Glam Fetish, High Camp solo per citarne alcuni, dove tutto viene ripreso e rilanciato dai magazine nascenti, annoiati dall'establishment troppo patinato, come The Face, Blitz e il tutt'ora in voga I-D magazine, nato dall'estro di Terry Jones, art director da Vogue, che per primo ricorse a modelle non professioniste e alla moda “da strada” per i suoi servizi. Il mito dell’euforia che sembra non voler finire mai nasceva nei club e finiva direttamente in passerella.
@vivienne84
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Il Piccolo