La politica spegne le luci ma il popolo del teatro reclama il ritorno in scena
TRIESTE Il catenaccio alle porte di teatri e luoghi d’arte continua a rimanere sigillato, arrugginito da settimane e mesi scanditi dai Dpcm anti-contagio. E anche se su gran parte dei palcoscenici italiani non si accede più alcuna luce, il mondo del teatro e del cinema è tutt’altro che assopito. Al contrario vibra di voci ed energie che vogliono riprendersi la scena, tracciare il sentiero che guidi a una resistenza compatta. «L’atteggiamento della classe politica nei confronti della cultura è sconcio – chiosa Moni Ovadia, l’intellettuale che ha fatto dell’arte il pilastro della sua vita professionale -. Chiudere i teatri è stata una scelta dissennata. Non lo dico contro il governo in quanto tale. Ma è semplicemente assurda perché i teatri sono i luoghi più sicuri che ci siano».
Per evitare di far calare il sipario su centinaia e centinaia di opere in divenire era sufficiente, secondo l’attore e drammaturgo di Plovdiv, adottare semplici misure: «Un’idea, per esempio, poteva essere quella di invitare i registi a fare spettacoli più brevi, per poi ripeterli più volte nell’arco della stessa serata e contingentare il pubblico di volta in volta. Non si è pensato a queste strategie banali per giochi politici. Ma è un’ipotesi, non ho alcuna prova. Quindi non muoverò nessuna accusa personale. La mia volontà, tuttavia, è quella di proporre uno sciopero fiscale. Perché dovrebbero chiederci le tasse se non veniamo considerati cittadini elettori come tutti gli altri?».
La sensazione che gli attori (e con loro, le categorie che gravitano attorno al settore come macchinisti e tecnici del suono), siano stati lasciati ai margini è condivisa dal collega Paolo Rossi, il commediografo e regista andato in scena tre giorni fa al Miela di Trieste con lo spettacolo in streaming “Sconcerto di Capodanno” che ha sfiorato i 30 mila contatti: «La gente che ha a che fare col teatro è stata la più penalizzata, alla stregua di tante altre categorie ormai considerate invisibili. Eppure la cosa non mi stupisce: sono circa 30 anni che la cultura viene devastata da modelli individualistici e consumistici. Non mi sorprende che un luogo sicuro come il teatro venga ritenuto pericoloso, mentre una via affollata di persone che fanno shopping non rappresenta un problema», spiega l’artista di Monfalcone che, mosso da questa consapevolezza, ha scelto da tempo di dedicarsi a un’arte che trascenda da ogni luogo fisico: «Il teatro, è vero, ha bisogno degli attori ma gli attori possono sfruttare ogni luogo per esprimersi, è concepibile farlo anche in questa fase storica – conclude Rossi -. Durante il primo lockdown sono stato il primo a cimentarmi in spettacoli nei cortili di Milano, rispettando tutte le norme certo, ma dimostrando che fare teatro è prima di tutto un rito collettivo».
I versi dei grandi poeti si possono dunque recitare nel bel mezzo di una strada ciottolata, o decantare dal balcone di un vecchio palazzo di periferia. Ma c’è anche chi crede che uno spazio attrezzato di poltroncine in velluto rosso e di palcoscenico resti qualcosa di insostituibile. E per cui valga la pena combattere: «Vivo la chiusura dei luoghi d’arte come una violenza - afferma il cantautore e attore teatrale Simone Cristicchi -. Senza essere complottisti, viene quasi il sospetto che siano stati svantaggiati i posti dove la mente è libera di viaggiare, dove si sviluppa un pensiero critico. È vero che l’arte può prendere forma ovunque. Ma il teatro è un luogo che io reputo sacro. Lì avviene una magia che non può essere replicata altrove».
Così, la pandemia si è abbattuta come una scure sulle spalle di coloro che dedicano la propria vita ad alimentare i circuiti artistici. Ma ha anche scoperchiato condizioni precarie che si trascinavano da anni, costringendo molti dei protagonisti ad aprire gli occhi su una crisi i cui segnali erano scritti da tempo: «Il declino era già in corso. Almeno questo periodo storico ha spinto noi attori a conoscerci, ci ha dato l’input ad agire in modo compatto – afferma Emanuela Grimalda, attrice triestina classe 1964 -. Forse il problema più urgente è creare una squadra, trovare il modo di sedere al tavolo delle trattative per permettere a chi fa parte della categoria di sopravvivere. Anche stabilire un elenco degli attori, infatti, ha rappresentato un ostacolo non indifferente quando è stato il momento di chiedere dei sussidi. Per questo motivo sono entrata a far parte di Unita, un portale nato negli scorsi mesi che cerca di raccogliere tutti gli attori di Italia, per rendere più agevole la richiesta di aiuti economici».
Questo, secondo Grimalda, è il problema più urgente. Ma intanto c’è chi legge tra le righe della chiusura dei teatri il segno di una cultura che pesa sempre meno sulla bilancia italiana. «Adesso perlomeno sono cadute tutte le maschere, abbiamo capito finalmente qual è la considerazione reale che si ha di noi – spiega l’attore Lino Guanciale–. Nonostante tante chiacchiere, il nostro Paese è uno di quelli che investe meno nella cultura in tutta l’Unione europea. Eppure, se il sistema non riconosce il valore del nostro lavoro è anche responsabilità nostra. È troppo tempo che non facciamo qualcosa per avere la considerazione che meritiamo. Forse questo è il momento di provare ad attivarci».
Il quadro appare fosco e offre pochi spiragli di ottimismo. Ma non mancano gli spunti a chi vuole sperare che si tratti solo di una nube passeggera: «Cosa vuole che dica, questa situazione è una tristezza. Non vale solamente per noi, tuttavia, stanno piangendo i teatri del mondo intero. Speriamo che in Italia ci ripensino e che riaprano – dice con un tono che non vuole cedere al dramma l’attrice Ariella Reggio, 84 anni festeggiati a settembre -. Noi al momento stiamo avanzando con i progetti. Insomma, continuiamo a vivere. Così, quando tutto questo sarà passato, non ci faremo trovare impreparati». —
1. - continua
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