Kounellis, la scultura dà spettacolo
Un autentico evento, ossia un avvenimento che non può trascorrere ignorato. Ma anche una epifania, ovvero una apparizione. La mostra di Jannis Kounellis all’ex Pescheria di Trieste chiama in causa altro da quel che sembra e dai materiali consunti, poveri, elementari da cui è composta.
Nei giorni precedenti l’inaugurazione, e nelle settimane in cui l’artista greco ha lavorato alla sua installazione, sul piazzale antistante l’ex Pescheria sono rimasti a lungo en plein air i residui della sua creazione (anzi, meglio: della sua invenzione). Pezzi informi di barche di legno. Brani di attrezzature da pesca. Cordami. Scarti di ingranaggi. Placche di metallo utili a rafforzare lo scafo di navigli provati dal mare e dal tempo. Alla fine è passato un camion che, con l’aiuto di un braccio meccanico, ha caricato nel trituratore tutto il mucchio della spazzatura. In fondo, nulla di differente da quel che il visitatore può incontrare deposto sui banchi di marmo d’Aurisina all’interno, nella navata centrale dell’immaginifica ex Pescheria inaugurata giusto un secolo fa su disegno di Giorgio Polli, genio eclettico di una cultura architettonica eclettica per definizione – nell’allora vitalissimo trituratore/impastatore chiamato Trieste. Ma da quei pezzi di barche e da quei tratti di canapa, dalle viti arrugginite e dalle vernici che vengono via a scaglie, Kounellis sa tirar fuori l’energia di umane storie, il soffio della Storia, la grandezza di umili anzi minimi protagonisti dell’umano divenire. In questo senso possiamo parlare di “invenzione”, nel senso che scopre quel che sta intimamente dentro alle cose e al panorama che ha innanzi agli occhi. Anima delle cose che sfugge agli occhi dei più e che l’artista sa rivelare. La grande bellezza si manifesta in questo naufragio, come se le barche dei pescatori si fossero spiaggiate all’ex Pescheria. Ma anche l’ex Pescheria partecipa di questa grande bellezza.
L’installazione di Kounellis intende la scultura come spettacolo, epifania, evento teatrale. Del resto l’itinerario dell’artista, itinerario che pure scaturisce dalla brutalità della materia più semplice e essenziale, contiene un dialogo ininterrotto con il tema della monumentalità. Ma la scultura è anche interrogazione, poiché l’arte se non colpisce e non chiama a essere interpretata, nega se stessa. E dunque il pellegrinaggio lungo le navate minori di Santa Maria del Guato, nell’ascolto di altri visitatori, ha occasioni di contaminazione, suggestione, viaggio fantastico. Per esplicita dichiarazione dell’artista, siamo di fronte a una “deposizione” e – del tutto evidente a chi ha negli occhi il Cristo deposto in prospettiva e quasi monocromatico di Andrea Mantegna oggi a Brera – di deposizione classicamente si tratta. La deposizione di un corpo consumato, graffiato, lacerato, ferito, offeso. E dunque non per nulla viene a mente, nel film che rappresenta il deposito della memoria contemporanea di tanti e anche di noi, anche la foto in bianco e nero del corpo disteso di Ernesto Che Guevara morto.
Di deposizione si tratta e la simbologia cristiana può essere evocata non a sproposito. Kounellis allinea i banchi lungo l’asse maggiore della basilica/Pescheria, ma li fa intersecare da due blocchi di sedie ciascuna ricoperta da un drappo nero. I due assi compongono una croce. I due blocchi di sedie richiamano agli occhi i cori (femminili) delle tragedie greche. I due blocchi di sedie assistono a una sorta di veglia funebre, tant’è che l’artista li chiama “le vedove”. Non è strano che Kounellis, nato al Pireo nel 1936 e memore di un viaggio a Trieste da bambino al seguito del padre ingegnere navale, rifletta sui pesci, sul mare, sull’acqua simbolo di vita e simbolo di morte, sul viaggio, sulla fatica dell’uomo. In questa impresa Trieste e il suo essere affacciata al mare, al confine e alla sua negazione, ha tanta parte di stimolo, di ispirazione, di elaborazione per l’artista greco migrato a Roma all’età di 20 anni nel 1956: se immaginassimo che potesse lavorare a Udine tra qualche mese, andrebbe per tutt’altre vie.
Siamo di fronte a una installazione che consente e anzi sollecita, di là dal fiume della memoria condivisa, di ritrovare tra gli alberi del personale vissuto di ciascuno le ragioni di un sentimento e di un ricordo. Ecco che agli occhi di chi guarda possono emergere tante storie e tante fantasie. Le carcasse delle barche sezionate e composte, una accanto e sopra all’altra, sopra ai vecchi banchi dell’ex Pescheria, possono apparire come una sorta di cimitero di dinosauri. Le pietre squadrate e appese a vecchie gomene di canapa, a loro volta attaccate alle costolature del coperto della laica basilica di Giorgio Polli, possono apparire un nugolo di minuscoli asteroidi. Un cielo denso di meteoriti sopra ai dinosauri morti, la cui ossatura è resa visibile come quella di un quarto di bue appeso al gancio di una macelleria.
A proposito: non siamo in una macelleria, ma in una ex Pescheria. E allora guardando l’installazione viene a mente che l’acronimo di Cristo è stato assemblato in “Ichtys”, ossia pesce, come esito delle lettere iniziali di “Gesù, Cristo, Figlio di Dio, Salvatore” e che appunto un pesce era il simbolo del Messia nei primi secoli del cristianesimo e delle persecuzioni. Ma l’ascolto dei visitatori della mostra parla anche di altri e naturalissimi pesci, come ovvio in una pescheria. Pardòn, ex Pescheria, perché Trieste è la città dove “ex” è prefisso indispensabile per tanta parte del suo volto urbano. Ma “ex” in latino indica non solo una condizione perduta, significa anche provenienza. La memoria dei triestini con i capelli bianchi (quando hanno ancora i capelli), riguardo all’ex Pescheria proviene appunto da giorni lontani, il cui eco – tuttavia – non è affatto spento. La mostra di Kounellis è per loro anche l’occasione di ritornare in quel grembo materno, dove sono cresciuti, si sono alimentati, si sono confrontati con la ricchezza della natura e della storia. Un modo per ri-pensare al rapporto tra Trieste e il mare, tra la città e la pesca, i traffici con l’hinterland e con paesi lontani. Rapporto a suo modo simbolicamente offeso, appunto con l’esodo della Pescheria in quel luogo senza senso e senza identità accanto allo Scalo Legnami, nella zona ex Gaslini (altro ex). Ma ritornare all’ex Pescheria di questi tempi, e osservare gli scheletri di barche deposti sopra agli antichi banchi disegnati da Polli, implica la possibilità di riandare a tempi in cui Trieste non era immiserita come oggi. Immiserita dal suo orizzonte basso, dalla sua disillusione, dal suo disincanto figlio di mille illusioni tradite, da una storia di piombo e da un habitus mentale da perenne adolescente. Le vecchie barche di pescatori, squartate e allineate da Kounellis su una serie di tavoli anatomici, agli occhi di tanti visitatori appaiono infatti pure una sorta di metafora o di profezia di Trieste (ma vale pure per l’Italia intera). I relitti delle barche di un grande naufragio, che ha coinvolto una flotta. Ma giacché parliamo di una epifania funebre, meglio pensarla come profezia, perché i vaticinii possono essere smentiti dall’umano ingegno e dal collettivo coraggio. Coraggio, Trieste. Coraggio, Italia.
p_possamai
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Il Piccolo