Italcementi, addio dopo 65 anni. Ventuno licenziamenti in vista
TRIESTE E’ finita l’11 gennaio una storia aziendale che a luglio avrebbe festeggiato il 65° genetliaco. Era l’estate del 1954 quando in via Caboto venne acceso il primo forno dello stabilimento Italcementi: erano veramente altri tempi, perchè a Trieste c’era ancora il Governo militare alleato. Adesso, dopo alcuni anni di funzionamento a livello di mera sopravvivenza, ecco il definitivo ammainabandiera: nel quadro della riorganizzazione delle attività italiane della tedesca Heidelberg, che nell’estate 2015 acquistò Italcementi dalla famiglia Pesenti, il sito produttivo triestino chiude i battenti. Il quartier generale del gruppo, che ha sede a Bergamo, ha avvertito i sindacati che sono state avviate le procedure per 21 licenziamenti collettivi.
Scatta ora la corsa contro il tempo per portare a casa perlomeno la cassa integrazione straordinaria, che consentirebbe di attutire per un anno gli effetti sociali della chiusura. «Attendiamo di essere convocati a Bergamo - dichiara Massimo Marega, il sindacalista della Cgil che ha comunicato la notizia - per definire il percorso di cessazione dell’attività. Gli impianti saranno messi in sicurezza e la vasta area, contigua alla Grande Viabilità, sarà a disposizione di nuove iniziative imprenditoriali». Per alcuni dei lavoratori licenziati ci sarà la possibilità di trasferirsi in altre realtà Italcementi, ma è probabile che la destinazione meno remota sia la bresciana Rezzato.
In verità il rapporto tra Italcementi e Trieste supera gli ottanta anni, perchè il primo progetto di insediamento risale addirittura al 1938. Da lì ad appena due anni lo scoppio della guerra mondiale allontanò i propositi industriali che vennero ripresi, come prima accennato, negli anni Cinquanta.
Lo stabilimento triestino conobbe anni felici, supportato dal terminal sul Canale navigabile, gestito dal 1959 fino a pochi anni fa, quando, causa la prolungata inattività, l’Autorità portuale decise di non rinnovare l’ormai storica licenza “144”: quando le cose funzionavano, approdavano una sessantina di navi all’anno, creando un movimento di poco inferiore alle 100 mila tonnellate. Comunque, a inizio millennio la fabbrica di via Caboto impegnava oltre cento addetti: verso la fine del primo decennio si evidenziano i segnali di crisi, che diventano drammatici tra il 2012-13 , quando l’organico crolla a 22 dipendenti, con una cinquantina di esuberi gestiti a base di pensionamenti e mobilità. Ma sotto l’impero Pesenti Trieste riesce se non altro a sopravvivere, insieme a Monselice e a Broni: il passaggio alla tedesca Heidelberg risulta invece esiziale. Trascorrono dal luglio 2015 appena tre anni e mezzo e anche il modesto presidio di macinazione alza bandiera bianca. —
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