Italcementi, addio dopo 65 anni. Ventuno licenziamenti in vista

Nell’ultimo triennio lo stabilimento di via Caboto aveva già ridotto il personale. Sindacati al lavoro per tentare la “carta” della Cassa integrazione straordinaria
Silvano Trieste 13/12/2012 Italcementi
Silvano Trieste 13/12/2012 Italcementi

TRIESTE E’ finita l’11 gennaio una storia aziendale che a luglio avrebbe festeggiato il 65° genetliaco. Era l’estate del 1954 quando in via Caboto venne acceso il primo forno dello stabilimento Italcementi: erano veramente altri tempi, perchè a Trieste c’era ancora il Governo militare alleato. Adesso, dopo alcuni anni di funzionamento a livello di mera sopravvivenza, ecco il definitivo ammainabandiera: nel quadro della riorganizzazione delle attività italiane della tedesca Heidelberg, che nell’estate 2015 acquistò Italcementi dalla famiglia Pesenti, il sito produttivo triestino chiude i battenti. Il quartier generale del gruppo, che ha sede a Bergamo, ha avvertito i sindacati che sono state avviate le procedure per 21 licenziamenti collettivi.

Scatta ora la corsa contro il tempo per portare a casa perlomeno la cassa integrazione straordinaria, che consentirebbe di attutire per un anno gli effetti sociali della chiusura. «Attendiamo di essere convocati a Bergamo - dichiara Massimo Marega, il sindacalista della Cgil che ha comunicato la notizia - per definire il percorso di cessazione dell’attività. Gli impianti saranno messi in sicurezza e la vasta area, contigua alla Grande Viabilità, sarà a disposizione di nuove iniziative imprenditoriali». Per alcuni dei lavoratori licenziati ci sarà la possibilità di trasferirsi in altre realtà Italcementi, ma è probabile che la destinazione meno remota sia la bresciana Rezzato.

In verità il rapporto tra Italcementi e Trieste supera gli ottanta anni, perchè il primo progetto di insediamento risale addirittura al 1938. Da lì ad appena due anni lo scoppio della guerra mondiale allontanò i propositi industriali che vennero ripresi, come prima accennato, negli anni Cinquanta.

Lo stabilimento triestino conobbe anni felici, supportato dal terminal sul Canale navigabile, gestito dal 1959 fino a pochi anni fa, quando, causa la prolungata inattività, l’Autorità portuale decise di non rinnovare l’ormai storica licenza “144”: quando le cose funzionavano, approdavano una sessantina di navi all’anno, creando un movimento di poco inferiore alle 100 mila tonnellate. Comunque, a inizio millennio la fabbrica di via Caboto impegnava oltre cento addetti: verso la fine del primo decennio si evidenziano i segnali di crisi, che diventano drammatici tra il 2012-13 , quando l’organico crolla a 22 dipendenti, con una cinquantina di esuberi gestiti a base di pensionamenti e mobilità. Ma sotto l’impero Pesenti Trieste riesce se non altro a sopravvivere, insieme a Monselice e a Broni: il passaggio alla tedesca Heidelberg risulta invece esiziale. Trascorrono dal luglio 2015 appena tre anni e mezzo e anche il modesto presidio di macinazione alza bandiera bianca. —


 

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