«Io, profuga dall’Africa racconto la mia Abissinia»

Nel bar di via Lazzaretto Vecchio dove ogni mattina scende a bere il caffè Rosaria Coniglio ricorda episodi della sua vita. E tutti si fermano ad ascoltare
Lasorte Trieste 15/02/18 - Intervista Maranzana, Rosaria Sara Coniglio
Lasorte Trieste 15/02/18 - Intervista Maranzana, Rosaria Sara Coniglio

TRIESTE La nutrice di colore che la coccolava sempre, gli ascari che la mettevano sopra le spalle e la portavano in giro per i campi, i giochi all’aperto con i bambini neri, le gite domenicali con genitori e fratelli sul carro trainato da cavalli fino alla sfavillante capitale dove su quel miracoloso schermo gigante del cinematografo recitava un giovanissimo Amedeo Nazzari. Ma soprattutto una simpaticissima e dispettosa scimmietta tutta bianca che era la sua amica preferita. Negli occhi di una bambina anche un passato di guerre e sopraffazioni può essere ricordato solo sotto aspetti quasi paradisiaci.

Sono passati esattamente tre quarti di secolo, 75 anni, da quando, nel 1943, Rosaria Coniglio detta Sara è tornata in Italia da Addis Abeba. Oggi, che di anni ne ha 84, quando al bar di via Lazzaretto Vecchio dove ogni mattina scende a bere il caffè, racconta episodi della sua vita, tutti gli avventori si fermano ad ascoltare.



«Sono nata a Campofelice di Roccella in provincia di Palermo e avevo due fratelli e due sorelle. Mio papà era contadino e non ce la faceva a mantenere una moglie e cinque figli. Quando nel 1937 esce il decreto del regime fascista che cerca colonizzatori per l’Africa orientale entrata a far parte dell’Impero non ci pensa due volte. Deve partire da Palermo con la nave Vulcania. Lo accompagniamo tutti, ma per prendere la carrozza che funge da taxi ci vogliono soldoni. Allora ci accompagna lo zio con un carretto: ci mettiamo due giorni per fare i 20 chilometri per Palermo e la notte ci rifugiamo in una casa disabitata. “Quando mi sono sistemato, vi faccio venire tutti”, ci dice papà Angelo che allora ha 36 anni. Poi niente più, mia mamma si dispera».

«Alla fine arriva una lettera spedita sei mesi prima con una serie di parole cancellate dalla censura. Mussolini aveva dato a papà un podere di campagna a Olettà, un villaggio a qualche decina di chilometri da Addis Abeba».

«Nel 1938 partiamo noi sei. Il figlio più grande ha 12 anni, la più piccola 2, io 4. Non ci sono più divise da piccola italiana, mi vestono come un maschietto da Balilla e mi metto a piangere perché volevo la gonna. Palermo, poi Mogadiscio e da qui in corriera Dire Daua, Asmara e infine Addis Abeba».

«La città mi sembra un sogno, accogliente, sfavillante, piena di palazzi, carrozze e bandiere italiane. Davanti al palazzo Regina Elena troviamo papà che ci aspetta alle redini di un calesse. È contento, ci racconta che alleva cavalli e lavora alla bonifica di una grande campagna guidando quaranta ascari che vivono con le loro mogli nei tucul con i giardinetti attorno alla casa coloniale».

«Con il tef coltivato, le donne fanno l’urghutta, una specie di polenta piena di pepe. Lui a mezzogiorno suona la tromba e tutti vanno a pranzo. Ci sistemiamo tutti a Olettà in un appartamento che occupa tutto il pianoterra di una casetta. Noi due bambine piccole abbiamo due nutrici nere affettuosissime che ci abbracciano continuamente. Mia mamma insegna alla cuoca come fare i cibi siciliani. Giochiamo in allegria con le bambine nere figlie degli ascari alle mamme, alle bottegaie, alle sarte. Gli ascari mi vogliono bene, mi portano sulle spalle in giro per i campi».

«Ogni domenica mattina papà addobba il carretto con i cavalli: lui, la mamma e una scimmietta bianca che è la mia migliore amica si mettono davanti, noi cinque dietro. Andiamo alla messa ad Addis Abeba. Ricordo che una domenica arriva anche Mussolini e si mette a ballare con tutte le donne, anche con mia mamma. Dobbiamo sempre rincasare prima che faccia buio e mia mamma va in giro con un moschetto sulle spalle perché a una certa ora escono le iene. Una delle sere più tristi azzannano la nostra scimmietta e se la portano via ridendo come persone umane. Per giorni piangiamo tutti quanti».

«Nel 1940 la situazione precipita. Qualcuno dei nostri ascari arriva fino al Negus per dirgli: “Il nostro signore è molto buono” e otteniamo una specie di certificato che vuole far sì che nessuno tocchi la nostra famiglia. Un brutto giorno arrivano gli inglesi e dividono gli uomini e i ragazzi sopra i 14 anni dalle donne e i bambini. Per fortuna mio fratello ha 13 anni, ma papà lo perdiamo di vista. Quando suona l’allarme aereo molti corrono nei rifugi, ma rimangano tombati all’interno perché qualcuno cementa le porte».

«Finalmente nel 1943 c’è uno scambio di prigionieri con gli inglesi: ci imbarchiamo a Mogadiscio e torniamo in Italia. Papà rimane prigioniero in Kenya, tornerà in Sicilia solo nel 1951 e non riconoscerà nessuno dei suoi figli».

«Nel 1962 arrivo a Trieste con mio marito per raggiungere mia sorella che aveva sposato un palermitano che lavorava qui in porto. Mio marito viene assunto al mercato ortofrutticolo di Trieste, ma con tre figli non ce la facciamo. Grazie al certificato di profuga dall’Africa vengo assunta in Comune come assistente domiciliare. I profughi dall’Istria senza lavoro non me lo perdonano. Ribatto che sono profuga italiana anch’io. In compenso vengo mandata a lavorare a Basovizza e dintorni e patisco tanto freddo rimpiangendo il caldo di Palermo e di Addis Abeba.
 

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