Il porto di Trieste e quel che resta di una sigla sindacale

Omar Monestier

TRIESTE L’incendio innescato dentro l’Agenzia dei lavoratori portuali si va spegnendo senza clamori lasciando sul terreno molte ripercussioni dolorose. La prima è un licenziamento. Le altre sono per ora lettere di contestazione che suonano non già come una ritorsione, e questa è la denuncia dei no Green pass, ma come la fine del patto sociale che stava dentro la creazione della società.

Allora guardiamo bene che cosa sta succedendo. A poche ore dalla rimozione di Tuiach, l’Autorità portuale annuncia l’avvio della gara del suo investimento strategico sui collegamenti ferroviari. Non è poca cosa, al di là dell’importo, non è soltanto una nuova e più funzionale strada ferrata. È parte rilevante della trasformazione dello scalo da luogo di grandi quantità di transiti a casa delle intelligenze, anche digitali. Meno rinfuse, più teu, più competenza, più tecnologia. L’Autorità nella sua strategia comunicativa - che ha anche il sapore agro della rivalsa - in poche ore contesta comportamenti che definisce illeciti a una parte dei dipendenti e subito dopo esibisce l’appalto. Che giunge così come era atteso nonostante i blocchi, gli idranti, gli striscioni e la Puzzer-mania.

Il Porto può programmare, annunciare e realizzare attività strategiche anche in questa surreale confusione e a poche ore dal sit-in di oggi pomeriggio, dove in tanti si spartiranno l’immagine iconica del gruista ribelle. Il Porto sta dicendo, insomma, che vuole sostenere le sue ambizioni anche senza l’apporto incondizionato delle braccia che l’Alpt aveva tolto dalla precarietà per impiegarle, non senza scorno dei sindacati per l’eccesso di protezione accordata alla sigla Clpt (dalla quale vengono molti degli scioperanti scesi in piazza).

I «fratelli», così li definisce Puzzer, sono stati usati e abusati. Rischiano ora di veder scomparire l’Alpt al grido di «libertà libertà». Dieci anni di lotte buttati via. Sai la soddisfazione.

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