Il gay pride e l’occasione perduta

L’altro giorno un lettore, Fabrizio, ci ha scritto. Così: «Di certo non sono gay, di certo non sono di sinistra. Ma che fastidio possono dare? Puzzano? Sporcano? Imbrattano? Importunano la popolazione? Mamma mia, che pochezza, caro sindaco. E alla prossima occasione si dimentichi pure il mio voto».
Un’opinione, come tante o diversa da tante, ma che va dritta al punto: l’Amministrazione comunale di Trieste nega piazza Unità d’Italia al Gay Pride perché (parola di assessore) «contrasta con le linee programmatiche con cui siamo stati eletti».
Concedere un luogo simbolo a chi manifesta contro chi ancora discrimina, per l’esercizio del diritto più sentito nella vita di uomini e donne (amare) significa rompere il contratto con gli elettori, col rischio di perdere consenso.
Gettare nei cassonetti le coperte di un clochard e vantarsene urbi et orbi si vede che invece no: non è in contrasto con gli indirizzi politici della giunta, visto che dopo mesi il vice sindaco resta in sella e pure rimbrotta l’Università, che anche se con qualche patema il Gay Pride persino lo patrocina.
Questione di coerenza: con ciò che si crede non i cittadini, ma solo i propri elettori chiedano.
E invece l’arte faticosa del governo di una comunità sta nel saperla rappresentare tutta: nel fare sintesi e non compromesso timoroso e perbenista dei bisogni come dei sentimenti; nell’assumersi la responsabilità: anche di un gesto simbolico, di distensione e non di esclusione e separazione.
Era una bella occasione per Trieste di dimostrare maturità e disincanto, di elaborare pensieri anche oltre le gabbie degli schieramenti, trasversali come tutti i diritti. O anche solo di porsi domande semplici, come fa il lettore Fabrizio.
P.s.: fossimo in chi organizza il Pride, dirotteremmo su Porto Vecchio. Lì posto ce n’è e anche il mare, si è un po’ defilati ma non si disturba nessuno: neppure un cantiere, posto che di aperti ancora non se ne vedono. Ma da qui a giugno c’è tempo, certo.
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