Hack: vi accompagno nei segreti delle stelle di cui siamo figli
«Siamo davvero figli delle stelle» afferma la scienziata ricordando che il 2009 è l’Anno dell’astronomia
TRIESTE «Noi siamo davvero figli delle stelle, siamo fatti degli atomi costruiti all'interno delle stelle. Sappiamo che l'Universo è essenzialmente un miscuglio di idrogeno ed elio, con impurità di tanti elementi più pesanti, compresi quelli che formano il nostro corpo: carbonio, ossigeno, azoto, fosforo... Noi siamo il prodotto di queste impurità, disperse nello spazio dall'esplosione delle supernove. E l'evoluzione darwiniana è il seguito dell'evoluzione dell'Universo».
Margherita Hack guarda con passione inalterata a quella scienza del cielo che l'Unesco ha deciso di celebrare proclamando il 2009 Anno internazionale dell'astronomia, a ricordo dei quattro secoli trascorsi dalle osservazioni al cannocchiale di Galileo, che per primo avvistò i crateri della Luna, le fasi di Venere, i quattro satelliti maggiori di Giove.
A giugno Margherita compirà 87 anni. E comincia a sentire nel fisico il peso dell'età. I tre bypass che le hanno inserito nel cuore il giorno di Natale del 2007 e alcuni seri problemi di salute del marito Aldo l'avevano tenuta per qualche tempo lontana dagli impegni scientifici e sociali. Ora la sua agenda è tornata a riempirsi di appuntamenti: inviti a conferenze, incontri con le scuole, presenze televisive, tre nuovi libri in programma. Senza dimenticare le battaglie politiche e animaliste. Ma stavolta vuol parlare solo di scienza, dei 60 anni che hanno rivoluzionato l'astronomia e di cui è stata diretta testimone.
Racconta: «Quando preparavo la tesi di laurea, a Firenze, durante la guerra, si poteva fare un buon lavoro anche con telescopi di 30-40 centimetri di diametro e con osservatori in città. Non c'era inquinamento luminoso, allora. Era ancora fresca la scoperta dell'espansione dell'Universo, frutto delle osservazioni di Edwin Hubble nei primi anni Trenta. Ma non si conosceva nulla o quasi dell'evoluzione di stelle e galassie. E si usavano le lastre fotografiche».
Subito dopo sono arrivati i grandi telescopi: «Sì, il 5 metri di Monte Palomar, in funzione dal 1948, e più tardi il 6 metri del Caucaso. Era il massimo possibile con gli specchi a blocco unico. Oggi, invece, ci sono telescopi di 8 metri di diametro, come quelli europei in Cile, o di 10 metri, come quelli americani alle Hawaii. E si progetta uno strumento di 40 o 50 metri di diametro. Sono telescopi con lo specchio formato da tanti tasselli, come le piastrelle d'un pavimento, collegati a un computer che regola in tempo reale la forma dello specchio. E l'emulsione fotografica è stata sostituita dai rivelatori elettronici».
Poi i telescopi sono andati nello spazio, come Hubble e i più recenti Chandra e Spitzer. Strumenti che consentono di osservare tutto lo spettro elettromagnetico, dalla radiazione gamma e X fino all'infrarosso, evitando la turbolenza atmosferica. Ma dobbiamo molto anche ai più modesti satelliti astronomici, messi in orbita dalla fine degli anni Sessanta. Tra questi ce n'è uno al quale Margherita Hack è particolarmente affezionata: l'Iue, International Ultraviolet Explorer, realizzato da americani ed europei e operativo dal 1978 al 1996, con il quale hanno lavorato – proprio grazie alle sue sollecitazioni – tanti astrofisici italiani.
«È vero, ho un debito di riconoscenza con l'Iue», riconosce con gli occhi che le brillano. «Nel 1957 avevo studiato la stella Epsilon Aurigae, dal cui spettro di luce avevo dedotto l'esistenza d'una stella compagna, molto più debole e più calda, che avrebbe eccitato la luce emessa dalla stella visibile emettendo nell'ultravioletto. Dalla stazione di Villafranca del Castillo, presso Madrid, puntammo allora il satellite verso Epsilon Aurigae e rimasi in attesa. Dopo qualche istante, sullo schermo cominciò ad apparire una strisciolina bianca nell'ultravioletto: era lo spettro della compagna invisibile. A ventun anni dalla mia ipotesi, era la conferma che avevo ragione. È stata la soddisfazione più bella della mia carriera scientifica».
Gli anni Sessanta portarono sorprese straordinarie: «Nel 1963 si scoprirono le radiostelle, oggetti celesti che sembravano stelle ma che emettevano una quantità enorme di onde radio, come un'intera galassia. Dallo spettro di luce e si vide che presentavano un fortissimo spostamento verso il rosso. Si trattava dei nuclei centrali di galassie lontanissime. Vennero chiamate quasar, contrazione di ”quasi stellar radio source”, sorgente radio quasi stellare».
Quattro anni dopo fu la volta delle pulsar, stelle che presentano rapidissime pulsazioni luminose: si capì che erano stelle di neutroni, ciò che restava dell'esplosione delle supernove. «Ma fu scandaloso – sottolinea Margherita Hack – che a prendere il Nobel nel 1974 sia stato Antony Hewish e non la sua allieva Jocelyn Bell, che le aveva identificate e studiate per prima».
Tra quasar e pulsar s'infilò nel 1965 la cosiddetta radiazione fossile a 2,7 gradi assoluti che permea tutto l'Universo: è il residuo della fase di altissima temperatura dell'Universo primordiale. La scoperta costrinse ad abbandonare il modello di Universo stazionario, in cui l'espansione è giustificata dalla creazione continua di materia, e ad abbracciare l'attuale visione di un Universo evolutivo, nato dal Big Bang. «Ma attenzione - avverte Margherita Hack -. L'Universo evolutivo non implica che ci sia stato un inizio esplosivo. Può anche darsi che nell'Universo primordiale, estremamente denso e caldo, si sia liberata dell'energia e che questa abbia dato origine all'espansione che ora osserviamo, risalente a 13,7 miliardi di anni fa. Nel 1992 il satellite americano Cobe identificò nella radiazione fossile delle impercettibili disomogeneità: sono i 'semi' della formazione di galassie e ammassi di galassie, successivamente studiati da altri strumenti».
A lasciarla perplessa è, invece, la teoria dell'inflazione cosmica, la rapidissima espansione che il nostro Universo avrebbe subìto nelle prime frazioni di secondo della sua esistenza. Teoria che cerca di spiegare l'apparente uniformità delle regioni più lontane del cosmo. «Mi convince poco – dice – mi sembra tanto un'ipotesi costruita ad hoc». E prudente Margherita Hack lo è anche sulla materia oscura e sulla radiazione oscura, entrambe invisibili ai nostri strumenti ma che costituirebbero il 95 per cento della massa totale dell'Universo: «Ci sono ipotesi alternative per spiegare certi fenomeni».
E poi i buchi neri, che ingurgitano materia e non lasciano filtrare la luce: forse ce n'è uno al centro d'ogni galassia, compresa la nostra. Ma non è ancora certo. E i Grb, i “gamma ray burst”, le poderose emissioni di raggi gamma provenienti da supernove in esplosione, individuate grazie al satellite italo-olandese BeppoSax. E infine i pianeti extrasolari, i sistemi planetari scoperti intorno ad altre stelle a partire dal 1995: «Oggi se ne conoscono oltre 300, di questi pianeti lontani. Tutti belli grossi salvo uno, a 20 anni-luce di distanza, di grandezza paragonabile alla nostra Terra».
Il Novecento ci ha lasciato in eredità una visione radicalmente diversa del cosmo in cui viviamo. È anche per questo che Margherita, se avesse a disposizione una macchina del tempo, sceglierebbe di lanciarsi nel futuro: «Il passato più o meno lo conosciamo. È il futuro che non riesco a immaginare...».
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