Due cappellaie matte al Museo di Gorizia
Ma chi l’ha detto che l’uncinetto serve solo a confezionare cuffie tristanzuole e centrotavola anonimi e deprimenti? Nelle sale del Museo della moda e delle arti applicate di Gorizia, a Borgo Castello, una piccola ma preziosa esposizione di cappelli, dimostra come, con fantasia, creatività, cultura e passione, da quello strumento d’altri tempi, perizia quasi perduta delle nonne, possano uscire prodotti di straordinaria modernità, confezionati alla perfezione e degni, appunto, di essere ospitati in un museo. Anzi, ai sedici pezzi unici firmati “Capplè”, la griffe di Elisa Savi ed Elena Masut, amiche da quasi mezzo secolo e cappellaie per elezione, la sovrintendente goriziana, Raffaella Sgubin, ha affidato un compito speciale: «Tra alcuni giorni - racconta - inizieremo i lavori per predisporre apparati multimediali sulla struttura esistente del museo e per realizzare altre due sale dedicate all’”ornamento scintillante”, degli anni Venti, un po’ come i cappelli in mostra, ma non solo».
La mostra di “Capplè” è dunque un assaggio, un’anticipazione di atmosfera Belle Époque, in vista dell’ampliamento degli spazi espositivi che dovrebbe concludersi prima di Natale: «Penso sempre a un museo non statico, che crei una dialettica tra passato e presente», aggiunge Sgubin. «Un museo che non sia solo contenitore della creatività del passato, ma che offra spunti e possa essere anche una vetrina per chi opera adesso. Quando ho visto questi cappellini, sono rimasta conquistata. Si ispirano agli anni Venti e Trenta, un periodo che amo in particolare, molto glamour. E confesso: non credevo che con l’uncinetto si potessere arrivare a tanto».
Ad accogliere il visitatore un trittico formato da “Ertè”, touche con gatto stilizzato in lurex oro e argento, “Chrysler”, una cloche rossa che si ispira agli anni Trenta per l’asimmetria e il motivo Art Déco, e “Greta Garbo”, altra cloche, nera con motivi d’argento: sullo sfondo, in un perfetto equilibrio cromatico, come se i cappellini fossero nati proprio per essere ammirati lì, c’è il grande quadro di Tominz “La famiglia Sinigaglia”. «Abbiamo esposto in posti poco convenzionali come una pasticceria, una stamperia, una fabbrica di cucine industriali, nelle gallerie d’arte, ma questa è la nostra prima volta in un museo e ne siamo orgogliosissime», racconta Elisa Savi, ex stilista di moda, convertita per amore di Moni Ovadia, di cui è moglie, ai costumi teatrali, e oggi artigiana-artista con l’amica d’infanzia. «Noi non facciamo cuffie o berretti - precisa - ma diamo a ogni nostro cappello all’uncinetto le stesse chance di quelli di modisteria e cerchiamo tutte le soluzioni tecniche per fargli assumere proprio quella forma. Nel cappello l’equilibrio è fondamentale. Abbiamo scelto gli anni Venti e Trenta perchè è un’epoca che ancora ci può dire qualcosa, perchè è “attualizzabile”, a differenza, per esempio, del Settecento. In questo periodo i cappelli diventano portabili, hanno una funzione sì decorativa, ma anche pratica, servono a ripararsi, a scaldarsi...».
“Chioma di Berenice”, col suo rosso antico, cattura lo sguardo accanto al ritratto anonimo di una giovane donna in abito rosa dei primi dell’800: anche qui la palette cromatica, la continuità tra quadro e copricapo è rispettata. «Questo cappello ha l’andamento a spirale di una galassia», racconta Elisa Savi. «Più preciso è lo sviluppo geometrico, più il cappello assume una sua armonia». Accanto ai telai storici del museo, “Giorni felici”, con tesa amplissima per ironizzare sui copricapi che si usavano per proteggersi dal sole negli anni Trenta, e “Rialto”, metà turbante e metà paglietta panna e nero, nel motivo a righe che richiama il mare, le spiagge di Chanel e Picasso. E poi “Bee...zzz!!!”, una touche con ape stilizzata, che si rifà all’uso degli insetti nei decori degli anni ’20, alla Schiaparelli, e “Jane Austeen”, di foggia ottocentesca: sono gli unici due pezzi, in rafia e viscosa, appartenenti alla collezione privata di un’amica delle cappellaie.
Ci sono anche Ginger e Fred, questa volta separati, perchè “lui”, un turbante sormontato da un cilindro in lurex, è collocato con i fratelli d’antan del museo. E poi “Lalique”, color argento, con un motivo a spirale che rievoca i mitici vetri, accanto ai bauli porta-abiti, e “Paramount”, turbante bicolore da diva con strisce nere e argento, a citare i classici raggi dell’Art Decó presenti nelle scenografie e nell’arredamento.
Una volta archiviata la mostra di “Capplé”, visitabile fino al 13 ottobre, il Museo della moda chiuderà per i lavori. «Realizzeremo due sale teatrali - anticipa Sgubin - con palco e spettatori, ed esporremo ulteriori venti abiti, molto scenografici, di cui due provengono da Vienna, appartenuti alla sorella del filosofo Ludwig Wittgenstein, Margaret Stonborough Wittgenstein, che fu ritratta da Klimt. Il primo, di grande raffinatezza, esce dalla sartoria parigina delle sorelle Callot ed è ricamato in filato di rame con perle color turchese. Il secondo è un abito verde smeraldo con calottine dorate che sembrano disegnare un motivo di girasoli». E, complice la scintilla scoccata tra le cappellaie e il Museo della moda, tra gli abiti che saranno esposti ci sarà anche quello donato nei giorni scorsi alle collezioni da Elisa Savi, del 1921, in tulle nero e ricami in filato dorato, con un motivo alla base di cestini ricamati a colori. «È il museo di una piccola città, ma che non ha niente da invidiare ad altri», spiega Savi. «Quello di Milano, a Palazzo Morando, non ha la stessa cura e raffinatezza di quello goriziano».
@boria_a
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Il Piccolo