“Dayton da superare”. Dagli Usa alla Bosnia s’infiamma il dibattito
Un membro del Congresso americano scrive a Tillerson: «Pace minacciata, Washington solleciti un nuovo accordo»
BELGRADO. Hanno segnato la fine della sanguinosa guerra negli Anni Novanta e gettato le basi della Bosnia-Erzegovina post-bellica, la sua ripartizione in entità, la super-complicata, spesso inefficace ed elefantiaca architettura istituzionale che la governa. Ma gli accordi di Dayton sono ormai superati. Anzi, da superare, con il forte intervento americano, perché la pace sarebbe a rischio. È questa - che sta suscitando un lungo e acceso dibattito nel cuore dei Balcani - la controversa posizione resa pubblica nei giorni scorsi dal membro del Congresso Usa Michael Turner, nel 1995 sindaco proprio della cittadina di Dayton, oggi rappresentante repubblicano al Congress of the United States, che ha inviato una lettera al segretario di Stato Usa, Rex Tillerson. Lettera attraverso la quale ha espresso forte preoccupazione per la situazione in Bosnia, 22 anni dopo la fine del conflitto, Paese ancora azzoppato dalle baruffe politiche interetniche.
«La pace di Dayton è minacciata, ora è un momento critico per la regione e gli Stati Uniti devono di nuovo prendere la guida» facendo sedere a un tavolo negoziale i leader della nazione balcanica, ha esordito Turner. Questo perché, ha aggiunto il congressista - che è anche membro del Comitato parlamentare per le forze armate e della delegazione Usa all’assemblea parlamentare Nato - il 2018 appena iniziato sarà cruciale per il Paese. Turner ha portato un esempio molto concreto. Nel dicembre del 2016 la Corte costituzionale bosniaca ha «dichiarato che l’attuale legge elettorale era incostituzionale perché rappresenta in maniera distorta le minoranze etniche. Il Parlamento della Bosnia-Erzegovina deve muoversi rapidamente per modificare la legge in tempo per le elezioni del 2018». Se ciò non accadrà, «la pace sarà quasi sicuramente messa a rischio», è la previsione del membro del Congresso.
Da qui, la proposta. Washington, che «ha l’obbligo di sostenere la pace che abbiamo ristabilito nel 1995, si muova» per convincere tutti i leader politici del Paese a parlarsi. Per raggiungere un “Dayton 2”, dai contorni però non precisati.
Le parole di Turner hanno sollevato un vero polverone e lanciato una discussione in Bosnia che dura ormai da più di dieci giorni. Dove le voci a favore di un Dayton 2, va detto, sono in esigua minoranza. Fra queste, quella del presidente del Consiglio dei ministri, Denis Zvizdić, che ha ammesso che «le relazioni tra i partiti al governo» stanno portando a «uno stallo» e anche per questo «l’idea di un Dayton 2 è molto interessante e non va cassata» senza ragionarci sopra almeno un po’. «Un nuovo Dayton sarebbe di vantaggio per i croati della Bosnia», che potrebbero puntare sul riconoscimento di una propria entità politica, ha suggerito invece lo storico Petar Basić, citato da Vecernji List, aggiungendo che è solo questione di tempo per vedere “crollare” l’impalcatura del vecchio Dayton.
Il fronte dei no è tuttavia ben più folto. Ultimo a intervenire sulla questione, in ordine di tempo, il membro bosgnacco della presidenza tripartita, Bakir Izetbegović, che ha specificato che un Dayton 2 non è un’opzione realistica, anche se ha ammesso che la Bosnia potrebbe ritrovarsi con un governo azzoppato dopo il voto del 2018, proprio per la mancata riforma della legge citata da Turner. Ostile a una revisione di Dayton anche il presidente serbo-bosniaco, Milorad Dodik, da anni il critico più aspro dell’attuale status quo bosniaco e sempre pronto a soffiare sul fuoco della secessione. «Noi non siamo a favore» di un Dayton 2, ha spiegato però Dodik, ma «di un dialogo interno senza interferenze straniere».
«Noi decidiamo come deve essere la Bosnia-Erzegovina» è la chiara posizione espressa anche dal membro croato della presidenza, Dragan Covic. A chiudere le porte alle idee che arrivano da oltreoceano pure Miroslav Lajcak, attuale presidente dell’Assemblea generale Onu, che ha ricordato che i tempi della guerra sono lontani e che oggi la Bosnia ha «un governo, istituzioni, elezioni regolari». E soprattutto che la soluzione dei problemi va trovata tra Banja Luka e Sarajevo, non a Washington: «Se i leader politici legittimamente eletti non provano il desiderio di mettersi d’accordo per una migliore funzionalità del loro Paese», allora nessun deus ex machina può fare alcunché. Anche se si chiama Usa.
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