D'Annunzio, dopo la protesta croata la statua divide gli storici

TRIESTE. Favorevoli e contrari. Gli storici si dividono sul significato della statua di Gabriele D’Annunzio. Chi ci vede un ostacolo al dialogo fra studiosi dei Paesi coinvolti nelle tragedie novecentesche dell’Alto Adriatico. Chi stigmatizza la valorizzazione acritica di un populista ante litteram che contribuì all’ascesa del Fascismo. Chi invece invita la città a uscire dalla nevrosi della memoria, accettando la convivenza tra frammenti di storie forse inconciliabili ma parte del concatenarsi delle vicende del confine orientale.
Raoul Pupo, autore del libro “Fiume città di passione”, ritiene «paradossale che dopo due guerre mondiali e con tutti i problemi dell’Europa attuale si abbia questo pessimo esempio di uso pubblico della storia, che fa di un evento simbolo della stagione dei nazionalismi l’occasione di tensioni fra Italia e Paesi confinanti». Il professore dell’Università di Trieste parla di «un’operazione politica più che culturale: non mi pare la rivisitazione dell’impresa di Fiume, ma una rivalutazione politica che non può trovarmi consenziente. Parliamo di un personaggio non assimilabile al totalitarismo fascista, ma nemico della democrazia e attore del crollo dello Stato liberale».
Per Pupo, «qualsiasi scelta riguardante la memoria in terra di frontiera va sempre fatta tenendo conto che la frontiera ha due facce. Iniziative del genere mettono a rischio gli sforzi di rivisitazione congiunta della storia della frontiera adriatica, come le tante recenti iniziative che hanno visto dialogare storici italiani e croati su quanto accaduto a Fiume. Iniziative spettacolari non servono a nulla e danneggiano questi impegni concreti, riportando indietro di trent’anni la meditazione del passato. Il centenario andava gestito diversamente».
Autore di “Fiume 1919. Una guerra civile italiana”, Marco Mondini è anche più duro: «Celebrare acriticamente Fiume significa celebrare la stupidità, perché Fiume aprì la strada al suicidio dello Stato liberale e alla guerra civile. D’Annunzio è stato una sciagura per la storia del Paese: uscì dalla Grande guerra come un genio della comunicazione massmediatica, che si rivolgeva a una platea bramosa di parole d’odio e violenza. Trascinatore di folle, vedeva la politica come guerra in cui l’avversario era un nemico da eliminare. La guerra gli aveva offerto un palcoscenico di imprese eroiche, magari non compiute, ma raccontate. Per questo D’Annunzio è la guida naturale della marcia su Fiume e il primo arrogante leader populista della storia italiana».
Secondo il docente padovano, «il Vate non va celebrato ma lasciato alla storiografia. Sgomberiamo il campo dagli equivoci: il 12 settembre 1919 non fu un’epica impresa per liberare i fratelli oppressi, ma la prima ribellione del nostro esercito, la prima tappa dello sfacelo dello Stato democratico, l’anticamera del fascismo e la perdita per l’Italia della possibilità di diventare grande potenza nell’area adriatica».
Paolo Mieli, ex direttore del Corriere e oggi divulgatore su Rai Storia, è al contrario «convinto che la storia va sottratta a tali polemiche: qualsiasi atto del passato può essere discusso, ma la scelta di dedicare un monumento a un personaggio multiforme come D’Annunzio non può essere contestata con argomenti dell’oggi. D’Annunzio merita attenzione: non deve piacerci tutto quello che ha fatto ed è legittimo criticare infinite cose della sua attività, ma entrare a gamba tesa su iniziative che lo ricordino mi pare inopportuno».
Lo storico Ernesto Galli Della Loggia vede soltanto provocazioni da parte dei detrattori della statua: «Non mi pare si ritragga il D’Annunzio comandante a Fiume. Parliamo di un grande letterato e, se la statua fosse stata inaugurata altrove, nessuno vi avrebbe visto una larvata ode a nazionalismo, fascismo e militarismo. A Trieste il passato non passa: pare che siamo sempre al 1946, in un’atmosfera che coglie ogni pretesto per creare fronti contrapposti e scomunicarsi a vicenda. Il classico “maledetti slavi e maledetti fascisti”. Una cosa che non so spiegarmi rispetto a pagine che dovrebbero essere consegnate alla storia, dal momento che Italia, Slovenia e Croazia fanno parte di una stessa comunità politica. Sarebbe ora di smetterla: non si può accettare il ricatto della nevrosi e non far nulla».
Secondo Galli Della Loggia, «una riconciliazione può esserci ma servono gesti coraggiosi, come quello di Willy Brandt quando si inginocchiò al ghetto di Varsavia e chiese scusa: il Concerto dei tre presidenti fu qualcosa di più convenzionale, mentre è con atti clamorosi che si possono chiudere queste contese degli animi».
Esperta di primo piano della storia del confine orientale, Marina Cattaruzza invita a stemperare le polemiche: «Ciò che mi colpisce è il fatto che l’impresa fiumana abbia avuto a Trieste un impatto maggiore a livello di commemorazioni rispetto alla Prima guerra mondiale. Dipende dalla complessità della vicenda, che somma l’elemento nazionalista a elementi di carattere libertario e “trasgressivo”. L’interesse per l’impresa deriva insomma a mio avviso dalla complessità dell’evento, da cui ognuno ha potuto prendere quello che gli è più congeniale: ma non ci si è focalizzati appunto solo sull’elemento nazionalista.
Trieste però ha avuto una storia complessa e su quasi tutte le iniziative di commemorazione ci sono state polemiche. Non vorrei enfatizzare allora l’importanza di questa statua: ci sarà quella di Maria Teresa e ci sono stati i ricollocamenti di quelle di Massimiliano e Sissi. In una città come questa è bene esercitare una certa tolleranza, ovviamente entro certi limiti: è il concetto della coesistenza di elementi contraddittori, come ben spiegato da Ara e Magris in “Trieste identità di frontiera”».
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