Dai laboratori di Elettra ai giardini della stazione per “dar voce” ai migranti

Ullah, 34 anni, è assegnista al centro di ricerca
Ullah, 34 anni, è assegnista al centro di ricerca

Trieste. Ci voleva la stazione di Trieste per aiutarlo a realizzare che nella sua testa vociava un regno sterminato di lingue. Perché Raheem Ullah, pakistano di 34 anni, assegnista di ricerca post-doc al centro internazionale Elettra Sincrotrone di Basovizza, ha scoperto di poter comprendere una rosa di dialetti tanto vasta solo una volta arrivato in mezzo ai migranti che tutti i giorni bazzicano in piazza della Libertà. Un dono latente, emerso come una sorpresa inaspettata. Che lo ha spinto a farsi interprete dei loro messaggi e dei loro bisogni, affiancando l’attività dell’associazione Linea d’Ombra.

Al Silos di Trieste tornano le baracche dei disperati. E dal fango spuntano giochi e pannolini
I giacigli dei migranti all'interno del Silos di Trieste


«Quando i cooperanti o i giornalisti intervistano gli uomini e le donne che arrivano dalla rotta balcanica è facile che questi ultimi si chiudano a riccio, che si sforzino di rispondere in modo formale alle domande – racconta Raheem, davanti ad un caffè che si beve proprio volgendo lo sguardo alla stazione centrale, dopo una giornata passata in laboratorio ad analizzare sequenze di DNA e cellule che hanno a che fare col cancro al cervello. – Quando invece parlano con me, che provengo dalla loro stessa terra e ho imparato a leggere il mondo attraverso i loro stessi codici, lasciano da parte ogni filtro. Così mi sembra di percepire più profondamente quello di cui hanno bisogno».

La lingua diventa così, oltre a strumento per comunicare, arma per abbattere le distanze. E se di giorno Raheem maneggia con attenzione nozioni scientifiche, cause e conseguenze dei tumori, di sera, una volta abbandonati i panni di biologo, veste quelli del volontario. E il suo oggetto di studio diventano le numerose declinazioni della sua lingua, suoni ed espressioni che risiedono negli strati più antichi della sua infanzia. «Quando ero bambino la mia famiglia non aveva nulla. Poi le cose hanno iniziato a girare nel verso giusto, mio padre era un uomo estremamente intelligente, tenace. Ma ha avuto anche tanta fortuna. È riuscito a garantire a me e a tutti i miei fratelli un’ottima istruzione. Diceva sempre che ci teneva ad avere un figlio con il titolo di dottore, e se ho raggiunto il traguardo è solo grazie a lui».

Il padre di Raheem è scomparso poco più di un anno fa. Ma la lezione che gli ha tramandato sopravvive nelle scelte che prende. «Si dedicava al volontariato, aiutava i ragazzi nello studio. Mi ha insegnato lui che bisogna supportare chi ha avuto meno fortuna, che la vita è soprattutto una questione di occasioni. Gran parte delle persone che incontro in piazza ne hanno avute poche. Mi sento in dovere di dare una mano».

Quella mano la tende ormai da dieci mesi, quando ha cominciato, spontaneamente, a tradurre ai migranti le indicazioni più semplici. Ma bisogna riavvolgere il nastro al 2012 per rintracciare il momento in cui ha intessuto i primi legami con Trieste.

«Otto anni fa sono venuto qui a fare il mio dottorato di ricerca, in biologia strutturale. Dopo quell’esperienza avevo scelto di fare ritorno in Pakistan, volevo costruirmi un futuro nella mia terra, nella mia città, Peshawar. Avevo trovato lavoro. Ma nel 2016 ci fu uno spaventoso attentato. E i miei genitori mi spinsero a cercare fortuna all’estero».

Il sentiero lo ha condotto a Trieste, di nuovo. La città in cui, appena può, si spinge per una passeggiata fino al parco della stazione. Prende posto sulle panchine insieme ai migranti. E con un’espressione di pazienza che sembra perennemente incisa sul suo volto raccoglie necessità e sfoghi.

«Ho cominciato per caso. Dopo il lavoro mi ritrovavo con un sacco di tempo libero, gli amici del passato ormai si erano trasferiti altrove. Avevo voglia di fare qualcosa di utile». Passeggiando tra gente dai suoi stessi tratti ma con un passato ben diverso, ha intercettato l’attività di Linea d’Ombra: «Ho ammirato tanto quello che Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi facevano. Così mi sono aggregato».

I suoni con cui Raheem costruisce quasi ogni sera centinaia di ponti linguistici attingono dal pashtu e dall’hurdu, dal farsi, dal punjabi, dal saraiki. Patrimoni che la sua coscienza ha cominciato a coltivare ai tempi dell’Università, quando è entrato in contatto con altri giovani benestanti provenienti da ogni punto di quel ricco mosaico territoriale.

«I dialetti sono tantissimi e sono incomprensibili anche tra persone che parlino la stessa identica lingua. Non li avrei imparati così bene se non avessi avuto l’occasione di frequentare un’università prestigiosa e se non avessi viaggiato».

A Trieste ha avuto modo di far fruttare il suo dono linguistico. Che sarebbe stato vano, se non fosse stato accompagnato da quello ben più prezioso dell’empatia. —


 

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