Da Rozzol Melara all’eremita dell’Ursus. Aveva ragione Marx: Trieste sa di Ballard

Ritratto distopico della quotidianità cittadina ispirato all’opera dell’australiano Sellars
Lasorte Trieste 14/02/19 - Melara
Lasorte Trieste 14/02/19 - Melara

Avremmo dovuto farla a J. G. Ballard, la statua. A un triestino può capitare di pensarlo leggendo un libro appena pubblicato in Italia, Ballardismo applicato (Nero, 406 pp, 20 euro). L’autore, l’australiano Simon Sellars, racconta la storia di ricercatore universitario (suo alter ego) ossessionato dallo scrittore inglese e dalla sua capacità di individuare i semi distopici nel presente. Sebbene sia incapace di dare forma accademica alla propria mania, il protagonista non riesce a disfarsene, al punto che la sua vita sconclusionata assume i tratti di un romanzo di Ballard. Viadotti autostradali, distese suburbane, cambio climatico traumi bellici, micronazioni e micronazionalisti, violenza nascosta dietro facciate placide. Il punto, in fondo, è che tutte le vite del XXI secolo potrebbero essere libri di Ballard. Vale anche a Trieste? Che l’opera di Sellars sia eccellente lo attesta il dibattito che suscita, in cui non intendiamo addentrarci. Meglio piuttosto mettersi al volante e capire se il ballardismo si può applicare anche sull’Adriatico. Il lettore perdonerà se contaminerò il viaggio immaginario con qualche fatto avvenuto.

Le Rive si aprono a sinistra con i mattoni rossi di palazzo Berlam, dominato da un leone alato in alluminio. Un architetto una volta mi raccontò che il progetto originario prevedeva di farne un grattacielo. Un tempo veder salpare un transatlantico per New York era spettacolo ordinario, e l’idea dello skyline provò ad attecchire sul golfo. Secondo Marx Trieste era un esempio di città cosmopolita plasmata dal capitalismo perché «aveva, al pari degli Stati Uniti, il vantaggio di non possedere un passato». A differenza del fondo basaltico di Manhattan, però, l’area salmastra su cui sorge il Borgo Teresiano non regge granché i grattacieli, sicché ci si accontentò di una versione ridotta. All’altra estremità delle Rive il Grattacielo di Campo Marzio, monolite da secondo dopoguerra, chiude idealmente lo skyline aperto dal gemello fantasma.

Tra le due torri, il centro. Nel libro Trieste arcana, Francesco Boer nota come l’iconografia cristiana sia assente, al netto delle chiese, sulle pur variopinte facciate dei palazzi. Il neoclassico ne fa una città pagana. Anni fa un lettore scrisse al giornale dicendo di apprezzare il lavoro di Boer, aggiungendo che a suo parere l’autore aveva sottovalutato l’impatto delle logge sul paesaggio urbano. Tutto il centro, scriveva, è «un tempio massonico a cielo aperto».

Le cronache politiche triestine abbondano di superiori occulti. Nulla di strano in una città i cui ricchi conducono vite agiate in ville immerse nel verde della costiera, o in grandi appartamenti agli ultimi piani del centro, ma rifuggono lo sfarzo pubblico. Un’alta borghesia molto discreta. A Trieste il potere è in incognito, per abitudine.

Arrivo all’altezza di Campo Marzio. Getto uno sguardo alla piscina riabilitativa collassata. Imbocco Campi Elisi e già pregusto la vera giostra ballardiana di Trieste: la sopraelevata della GVT. Saluto l’ippopotamo sul globo di piscina Bianchi e prendo la rampa. La torre bianca del Lloyd in stile portoghese è sperduta in una selva di gru colossali.

Proseguo verso Servola. L’arco della galleria incornicia la Ferriera mentre sputa fuoco e vapore. La fabbrica accende tensioni da decenni nel quartiere, un avvallamento occupato da graziose villette in perenne deprezzamento e da una cresta di condomini sormontati da cupole di vetro e cemento. Nota a margine: non è cosa di cui possa offrire prova empirica, ma credo che Trieste sia l’unico posto al mondo dove un campo di concentramento nazista si trova a due passi da un supermercato.

Sfreccio fra i camion turchi e mi affaccio alla vista sulla Rosandra, il canale navigabile, l’inceneritore. Accelero, passo ai piedi di Cattinara (a quanto arriverà il vento in vetta quando tira bora scura?) e appare: il quadrilatero di Rozzol Melara. Il Condominio. Nell’omonimo libro di Ballard gli abbienti inquilini di una mega residenza di lusso regrediscono all’età della pietra quando l’edificio resta isolato. Destinarlo a edilizia popolare e lasciare le porte aperte sembra essere una soluzione più salubre: nonostante le difficoltà, si vive anche all’ombra di un’architettura che rende minuscolo l’umano.

Esco dalla GVT e torno verso il centro. Forse l’anima della città non sta negli spettri letterari e imperiali, sempre più liofilizzati in chiave divulgativa. Il gusto per il commercio li ha resi moneta buona per il mercato turistico, altro flusso globale, oltre a quello delle merci, in cui Trieste si sta inserendo per tornare a respirare. Forse aveva ragione Marx, il cuore di Trieste oggi è un vecchio nonluogo, l’avanzo di una prima globalizzazione naufragata. Una chiatta d’archeologia industriale asburgica alla deriva in mezzo al mare.

Il protagonista del libro di Sellars è ossessionato da un testo di Ballard in cui un manager finisce fuori strada in un interstizio tra autostrade e decide di restare lì, proclamando una secessione personale dal mondo contemporaneo. Parcheggio in fondo al Molo IV, davanti al mare. Mi avvio a piedi all’uscita. La piattaforma di asfalto, vetro e metallo del parcheggio è abbacinante nel sole di luglio. Alzo lo sguardo verso Ursus. Dalle ombre nel ventre arrugginito della gru, invisibile fino a quel momento, s’avanza un uomo. Si ferma sul limitare del vuoto in posa ieratica, fissandomi. Alza il pugno contro il cielo. Trieste è ballardiana. —

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