Caso Wärtsilä a Trieste: qui si vedrà di cosa siamo fatti

Questa non è una crisi aziendale. È una operazione di rapina ai danni di ciò che resta della classe operaia. È un tradimento, l’atto finale di quella delocalizzazione senza sentimenti che sta deturpando economie intiere.
Omar Monestier
Lavoratori fuori dallo stabilimento Wartsila a Trieste (foto di archivio)
Lavoratori fuori dallo stabilimento Wartsila a Trieste (foto di archivio)

TRIESTE Dobbiamo decidere se vogliamo passare le giornate a guardare col naso all’insù le navi bianche torreggianti davanti alle Rive, e continuare a lamentarcene, o se vogliamo restare quel che siamo e dobbiamo continuare a essere: una città industriale, un polo della meccanica, dell’acciaio e della logistica. La scontrosa bellezza e le blasonate istituzioni scientifiche continueranno a fare da corollario impareggiabile e di alta qualità, ma qui si dica, adesso e ad alta voce, se questo ci può bastare. Trieste nasce come Emporio, come culla della marineria, come patria delle famiglie imprenditoriali che ancora oggi menano vanto a una città di malmostosi.

Questa non è una crisi aziendale. È una operazione di rapina ai danni di ciò che resta della classe operaia. È un tradimento, l’atto finale di quella delocalizzazione senza sentimenti che sta deturpando economie intiere. I finlandesi investono a casa loro, e va bene. Questo pezzo del loro impero, però, è anche nostro. Sostenuto con danari pubblici, trattenuto con generosità e, insomma, basta. Basta.

Se Trieste non è la città imbambolata che ci piace raccontare con i selfie davanti al tramonto sul golfo, se non è solo il circuito laccato dei festival letterari, la città che vive di una memoria che spesso nemmeno conosce per davvero e che viene riscritta solo come epopea del bel tempo che fu, ecco, se Trieste è anche sudore e lavoro onesto è tempo che scenda in piazza.

Eravate migliaia a scandire slogan sulla libertà durante la scellerata protesta dei portuali contro i vaccini e i green pass. Libertà, libertà. Adesso dove siete? Il lavoro che evapora senza nemmeno una finzione di partecipazione al dolore che si infligge di botto, di prima mattina, con un comunicato che non ha spazio per una parola di pietà non è anch’essa una forma brutale di restrizione della libertà?

So bene che siamo solo all’inizio e che lo Stato metterà a disposizione tutti gli strumenti di sostegno previsti per le crisi aziendali. Trieste non ha bisogno di altri sussidi, però. Non può essere consolante sapere che in qualche modo si provvederà al sostentamento per quanti non potranno più varcare i cancelli dello stabilimento. È tempo di lottare. Si dice che mai come in questo lustro i triestini abbiano ricominciato a ritrovarsi nella forma della comunità, lasciandosi alle spalle mezzo secolo di dolorosa ricostruzione identitaria. Ecco, la chiusura è un attentato alle nostre vite, alla nostra stabilità appena ricreata.

Il piano di Wärtsilä è inaccettabile e questo non può che essere l’unico punto di vista.

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