Caso Irci, gli istriani contro il Comune di Trieste: «Si è rotto un patto»
Squassati di recente da profondi dissensi interni, improvvisamente gli istriani hanno fatto pace davanti a un avversario comune. Che è proprio il Comune. Il quale decidendo di dissociarsi da 10 dei 17 enti di cui faceva parte, per risparmiare sulle quote annuali, non ha in altri termini risparmiato l’Irci, l’Istituto di cultura istriana, fiumana e dalmata, già al centro di pesanti vespai. E dove peraltro esprime il vicepresidente, la direttrice dei Civici musei e del Revoltella, Maria Masau Dan.
«È stata una scelta unilaterale, una rottura della convenzione in atto che prevedeva precisi impegni reciproci: per l’occasione ci siamo ricompattati, e noi dell’Associazione Venezia Giulia e Dalmazia - dice Renzo Codarin, che ne è il presidente oltre che essere revisore dei conti proprio all’Irci - con l’Unione degli istriani di Massimilano Lacota (che dell’Irci è consigliere) e l’Unione delle comunità istriane (di cui fa parte la presidente dell’Irci, Chiara Vigini) stiamo per denunciare pubblicamente quanto è accaduto».
Il Pdl con il consigliere regionale Bruno Marini e la consigliera comunale Marina Declich lo hanno già fatto: «C’è un pregiudizio, una sottovalutazione di ciò che l’Irci rappresenta in termini di tutela della cultura, della storia, delle tradizioni, dell’identità delle popolazioni dell’esodo giuliano-dalmata». Ma se la discriminante politica è tutto fuorché indifferente nelle manovre che da tempo avvengono attorno all’istituto e al museo di via Torino (che ha appena inaugurato la bella mostra sul pittore Argio Orell), stavolta il fronte si salda e un pesante giudizio su questo divorzio del Comune (meno grave, si dice, quello già firmato dalla Provincia) viene dalle parole di Stelio Spadaro, “guru” della sinistra triestina e molto attento indagatore della storia “non ideologica” di Trieste, dell’Istria e dintorni. Spadaro all’Irci è consigliere, delegato della Provincia, ma boccia Cosolini: «Il punto di riferimento istituzionale che legava il Comune all’Irci - detta Spadaro - ha una ragione profonda, non è questione di contributo: è il segnale del legame tra città e Istria. L’Irci non è una associazione di esuli, ma ha lo scopo di valorizzare una componente essenziale della cultura adriatica. Rompere proprio oggi questo rapporto istituzionale - aggiunge Spadaro - diventa strano, mentre la Croazia sta per entrare nella Ue e i giuliani di lingua italiana possono dare un grande contributo per ragioni storiche, politiche e civili. Il Comune di Trieste aveva l’obbligo di rappresentare un ruolo nella cultura “adriatica” di Trieste e nella presenza di una Italia non nazionalista nella costola Adriatica: mentre l’Adriatico recupera tutte le sue componenti, il disimpegno del Comune sembra cosa superficiale, poco meditata. Cosolini, forse, ci penserà su».
Codarin e i suoi vedono invece più concretamente stracciato il patto di gestione. «La convenzione, tuttora attiva - spiega - dava obbligo all’Irci di ristrutturare il museo di via Torino, concesso in comodato gratuito, e l’istituto lo ha fatto da tempo, e al Comune poi l’onore e l’onere di gestirlo, cosa che ancora non è avvenuta: per questo - aggiunge Codarin - il Comune paga 70 mila euro all’anno, perché è l’Irci a farsi ancora carico della gestione e il museo non è mai nato».
«La convenzione - dice assai brevemente Maria Masau Dan, direttrice dei musei e appunto vicepresidente dell’Irci in nome del Comune - prevede la gestione del museo da parte nostra. Si farà una nuova convenzione: è in corso il rinnovo e se ne occupa il direttore dell’Area cultura. Quando ci sarà la nuova convenzione, si farà anche il progetto per il museo, ma al di là di questo il mio ruolo non va».
«Fra amici e partner non si fa certo così - insiste Codarin irritato -, non si prendono decisioni unilaterali. E la vicepresidente dell’Irci è proprio la direttrice dei Civici musei. Stiamo parlando dei “pezzi grossi” del Comune. Di fronte a un tanto i dissensi fra le nostre varie “anime” si sono di colpo affievoliti. Non vogliamo drammatizzare. Ma puntualizzare sì».
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