Antiquarium, a Trieste il museo aperto due ore a settimana

La struttura di via Donota dedicata ai resti romani rinvenuti in zona negli anni ’80 Dipende dalla Soprintendenza, ma stagna tra anonimato e trascuratezza

Ci passa per coincidenza qualche turista diretto a San Giusto, di tanto in tanto lo visitano una manciata di scolaresche per volere degli insegnanti e ci mettono piede pochi, pochissimi triestini. Eppure, salendo la stretta via Donota, all’altezza del teatro romano, sorge un piccolo museo archeologico. Si chiama Antiquarium e racconta più di cinquecento anni di storia. Fra epoca imperiale romana e quella alto medievale. Fra cocci di vasellame del primo secolo e anfore utilizzate per la sepoltura dei bambini durante l’età “buia”. Purtroppo, anche fra erbacce e calcinacci. La causa del suo anonimato e della sua trascuratezza è l’infelice gestione statale.

Il sito archeologico – dipendente dalla Soprintendenza – è aperto solo il giovedì, dalle 10 a mezzogiorno. L’ingresso è gratuito, ma due ore alla settimana, per di più in una mattina feriale, non bastano a valorizzare mezzo millennio di cimeli.

L’Antiquarium è costituito da una zona espositiva e una archeologica. I suoi reperti vennero alla luce in seguito agli scavi effettuati durante gli anni Ottanta nell’ambito di un recupero edilizio del quartiere.

La zona espositiva, collocata fra i resti della torre Donota, ospita due vetrine: la prima contiene forniture domestiche appartenute a una casa di nobili romani situata nell’attuale piazzetta Barbacan. L’abitazione, la “domus”, venne edificata verso la metà del primo secolo.

Al di là del vetro sono esposti frammenti di tegami, brocche e anfore. Il ritrovamento di una di queste, costruita in Africa, è la testimonianza che nell’ultimo periodo di vita dell’edificio si usava olio proveniente dalla lontana Tunisia.

Nella seconda vetrina, dedicata all’abitazione che si trovava nella stessa via Donota - i cui resti sono visibili nella parte archeologica - spiccano reperti di vasi, ciotole, pentole e piatti prodotti oltre che in Italia, anche nelle Gallie e in Asia Minore.

La casa ebbe due fasi costruttive. Una risale a circa duemila anni fa ed è contraddistinta da un pozzo profondo quattro metri e tuttora visibile. L’altra, di poco posteriore, è caratterizzata da pozzetti, canalette e una latrina. Il che suggerisce un decadimento sociale della costruzione.

Il declino delle “domus” portò a un cambiamento di utilizzo e, intorno al secondo secolo d.C., venne impiantato un sepolcreto delimitato da un recinto che simboleggiava il confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Qui si estende la zona archeologica, la meno curata.

Fra il 300 e il 500 l’area venne utilizzata come custodia di tombe e anfore funerarie per la deposizione di bambini. Durante il recupero edilizio ne vennero trovate due, con quello che rimaneva degli scheletri. Oggi, accanto a uno dei due bambini, crescono erbacce che non vengono tagliate per mancanza di fondi. La muffa, oltre a divorare le pareti dell’Antiquarium, si è formata anche intorno alle bacheche guida. L’unico accessorio del sito archeologico utile alla pulizia è una scopa blu di cui resta solo il manico.

Una signora che abita in via Battaglia e le cui finestre si affacciano sul manto erboso del tetto del museo, racconta che nell’ultimo anno ha tagliato «tre volte l’erba e raccolto immondizie su immondizie, perché nessun addetto si è mai visto passare nei dintorni».

Così, mentre i ragni tessono tele su muri, tubi, lampadari e ovunque sia possibile, il piccolo Antiquarium aspetta in silenzio di occupare il posto che merita nella città “cara al cuore”.

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