Agostini: «Sicurezza in moto, così vincemmo la battaglia»

L’ex campione: dopo la morte di Parlotti pretendemmo regole minime. L’Ue studia nuove norme sull’air bag che si indossa
Giacomo Agostini fotografato da Claudio Ernè nella casa di Bergamo
Giacomo Agostini fotografato da Claudio Ernè nella casa di Bergamo

TRIESTE. «È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso». Giacomo Agostini, il quindici volte campione del mondo di motociclismo, ricorda con queste parole l'incidente che nel 1972 mise fine alla vita di Gilberto Parlotti. Tourist Trophy, Isola di Man, quarta prova del Campionato mondiale classe 125, una Morbidelli lanciata verso il successo, l'uscita di strada, lo schianto in fondo al burrone e il buio.

«È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso», ripete Agostini. «I tragici minuti in cui le prime voci dell'incidente iniziarono a circolare e il successivo momento in cui fui informato che il mio amico Gilberto era morto, mi fecero decidere che la vita di noi piloti non poteva più essere messa in vendita a beneficio di organizzatori che applicavano ai circuiti di gara le minime misure di sicurezza. In tanti la pensavano come me da lungo tempo ma nessuno fin lì aveva agito pubblicamente».

Gilberto Parlotti con Giacomo Agostini
Gilberto Parlotti con Giacomo Agostini

Agostini invece aveva protestato, aveva contestato e messo sotto accusa quelle crudeli regole del gioco. In sintesi aveva rotto il silenzio di quei corridori che, sbagliando, ritenevano che a loro non sarebbe mai capitato un incidente, un'uscita di strada, una caduta, un grippaggio al motore, un contatto troppo violento con la carena di un altro motociclista o con la lama assassina di un guard - rail in agguato a bordo pista...

«Non è questione di fortuna e sfortuna, ma di sicurezza e organizzazione. Ecco perché subito dopo l'incidente a Parlotti ho agito di conseguenza; ho protestato con la Federazione internazionale, ho cercato di esercitare pressioni sugli organizzatori affinché rivestissero pali e muri con balle di paglia. Era un requisito minimo ma in molti circuiti queste elementari misure di sicurezza spesso erano assenti per consentire il risparmio di qualche soldo.

Con altri colleghi abbiamo minacciato di astenerci dalle gare; abbiamo fatto trapelare ad alcuni giornalisti che avremmo potuto compiere dopo il "via" alcuni giri di pista al rallentatore. Rivendicavamo la nostra dignità e la nostra sicurezza. Qualcosa si è mosso e qualche anno più tardi - grazie alle nostre iniziative - il Tourist Trophy è stato depennato dalle prove del Campionato mondiale. Era ed è troppo pericoloso disputare una gara su strade normalmente aperte al traffico, per competizioni di vertice con in palio punti per il titolo mondiale».

Un giovanissimo Giacomo Agostini
Un giovanissimo Giacomo Agostini

La stessa iniziativa a favore della sicurezza nelle gare ha cancellato negli anni le competizioni organizzate in Italia sui circuiti cittadini della costa romagnola. «Non c'erano spazi di fuga adeguati per chi arrivava "lungo" a una curva», spiega Agostini.

«Molti pali della rete elettrica e dei cartelloni pubblicitari circondavano le piste. Muri, tombini della rete fognaria, passaggi pedonali dipinti sull'asfalto con vernice bianca, segnavano i circuiti sui cui rettilinei superavamo la velocità di 250 chilometri all'ora. Tutto questo dopo anni e anni di iniziative e proteste è stato superato. Sui circuiti del Motomondiale la sicurezza è applicata e gestita con accuratezza. Quello che all'inizio rappresentava una rara concessione degli organizzatori è diventato un preciso e non negoziabile diritto dei corridori».

Ma non basta. L'incolumità dei piloti oggi è supportata non solo dalla configurazione delle piste di gara ma anche da misure "passive". I caschi integrali hanno sostituito le antiche "scodelle" della Cromwell e i successivi modelli jet che non proteggevano, lasciandola scoperta, la mascella, la mandibola e il naso.

Gilberto Parlotti
Gilberto Parlotti

Le tute da gara hanno adottato adeguate protezioni di kevlar e fibra di carbonio a gomiti e spalle. Le "saponette" coprono le ginocchia, i guanti sono realizzati in pelle più spessa e sulle palme i costruttori hanno inserito materiali di attrito che salvano in caso di caduta salvano l'integrità delle cute.

Ma il punto determinante di queste innovazioni è rappresentato dall'air bag. Lo ha inventato e messo a punto Lino Dainese. Può essere inserito nelle tute da gara, nei giubbotti e nei gilè indossati dai motociclisti. Protegge la schiena dagli urti innescati da un'eventuale caduta ed evita le lesioni alla colonna vertebrale che in passato hanno costretto alla carrozzina tanti malcapitati.

È un'innovazione rivoluzionaria che per la sua efficacia sui circuiti di gara è stata adottata da tutti, ma che l'utente normale delle due ruote stenta a capire. Ecco perché sono allo studio negli uffici legislativi europei norme che inducano chi sale su una moto, uno scooter o un motorino a dotarsi di questi air bag. È in gioco la sua qualità della vita, la sua incolumità, il suo futuro. Ecco perché esiste - se ne parlerà anche a Trieste in un convegno a settembre - un continuo travaso di tecnologie dalla pista alla strada. Scopo comune la sicurezza. Indossare il casco, dopo lunghe battaglie è diventato obbligatorio per legge. A livello europeo per l'air bag nella tuta o nel giubbotto è solo questione di tempo.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Riproduzione riservata © Il Piccolo