Afro, Paganini dell’arte e l’amicizia con Sbisà

Da venerdì al Museo di Casa Cavazzini a Udine l’esposizione dedicata ai due pittori
Di Fabio Cescutti

di Fabio Cescutti

Gli artisti esprimono i sentimenti attraverso il disegno, quello che Matisse definiva l'onestà dell'arte. La dedica di una carta inedita di Afro a Sbisà e Mirella racconta un'amicizia ancora sconosciuta. L'amata moglie Maria Romio ritratta di getto mentre sferruzza nella casa degli amici triestini, quando il più giovane dei Basaldella presenta nel gennaio '47 la mostra alla Galleria dello Scorpione di Trieste, è la conferma che pittori friulani e giuliani, isontini e pordenonesi sono nostri in quanto nostro è il sentire comune, nostro è questo territorio che si estende dentro un più ampio Nordest dell'arte proteso storicamente verso Venezia da una parte e Vienna e Monaco dall'altra.

Mirella ricorda che, allora, nessuno dei protagonisti dette molta importanza a quel gesto spontaneo, normale fra pittori. Osservazione logica, in quanto è poi la storia dell'arte a decidere cosa ricordare.

I cartoni degli affreschi di Galleria Protti a Trieste (“Il lavoro” e “Lo svago” del 1937) donati da Mirella Schott ai Musei civici di Udine e visibili a Casa Cavazzini da venerdì fino al 20 ottobre nell'esposizione “Afro Basaldella e Carlo Sbisà: l'elegia del quotidiano. La decorazione murale negli anni Trenta” indica dunque come l'arte, se ben studiata, offra sempre nuovi spunti di analisi.

E concreta anche fuori dal Revoltella – che a cavallo del '96-'97 espose l'opera del triestino escludendo però la scultura - l'auspicio di Silvio Benco. A proposito della lunga elaborazione tecnica per Galleria Protti, l'autorevole critico scriveva già allora che bisognerà pure esporla, «poiché essi sono fra i più magistrali disegni che si facciano oggi in Italia».

Seppure con caratteristiche e attitudini diverse, i due maestri lavorano con entusiasmo a quella che è la “pittura sociale per eccellenza”, come si evince dal Manifesto del 1933 a firma di Sironi, Campigli, Carrà e Funi. L'affresco è una sfida culturale al sistema espositivo privato, alla centralità del museo che, come in una nemesi storica, riabbraccia e accoglie l'opera di Sbisà mentre quella di Afro (“Cena all'aperto” e “Vita di campagna” del '38) pur facendo eccezione essendo nata per la dimora privata di Dante Cavazzini, è addirittura parte integrante di un'istituzione museale.

I lavori dei due artisti hanno però basi diverse: il friulano si esprime con la tempera all'uovo su muro, senza badare a precedenti approfonditi studi su carta; il triestino segue meticolosamente la tecnica dell'affresco. Molti disegni a sanguigna e gli stessi cartoni preparatori hanno dignità di opere autonome.

Afro che Pizzinato vide nel '36 decorare l'atrio dell'ex Collegio dell'Opera nazionale Balilla in via Pradamano (oggi scuola Fermi) ha appena ventiquattro anni. Eppure il collega lo descrive come un “Paganini della pittura”. Ed è forse la giovane età a trattenerlo da procedimenti più complessi e studi dei particolari in quanto la pianificazione sarà importante come ha teorizzato la mostra romana del centenario “Afro dal progetto all'opera 1951-1975”.

Carlo alla fine degli anni Trenta è invece all'apice della sua carriera, si avvicina ai quarant'anni e vive la stagione di Novecento fin dagli albori, pagando forse la lunga permanenza fiorentina mentre il nuovo linguaggio pittorico ruota attorno alla Milano di Margherita Sarfatti - critica d'arte e amante di Mussolini - dove Sbisà approda più tardi.

Il suo realismo magico vive comunque un periodo felice nel sodalizio con Nathan e Leonor Fini. Poi come per Sironi l'opera da cavalletto diventa troppo stretta. L'artista sente il bisogno di una superficie più ampia, di un'architettura e una geometria che si riflettono strutturalmente nelle ultime opere su tela. I suoi affreschi sono “ortodossi”.

«Scrivetelo pure – aveva detto a Benco nel 1944 – io non l'ho fatto per moda, non l'ho fatto per suscitare compiacimenti fugaci: io sono stato sempre, per sentimento, un neoclassico».

Afro è su tutt'altra linea, avviluppato anche da stile e toni legati alla Scuola romana e ai suoi protagonisti con i quali condivide la giovinezza. Gli affreschi all' Onb di Udine sono ricoperti dopo l'inaugurazione per ordine del gerarca Renato Ricci.

Non piacciono le figure allungate manieristicamente con pochi muscoli e scarsa romanità. Il disarmante e allo stesso tempo struggente ragazzino che gioca alla guerra con il cappellino di carta in testa e la bandierina in mano avrebbe potuto forse avere una certa considerazione al Premio Bergamo di Bottai, ministro dell'Educazione nazionale. Il premio parte nel '39 ed è un'isola culturale dove nel '42 si distingue lo stesso Afro con “Il seggiolone”. Ma la manifestazione sarà osteggiata da Farinacci e dallo zoccolo duro del fascismo.

Sbisà attraverso l'insostenibile leggerezza del suo disegno riprende la tradizione toscana quattro-cinquecentesca. I suoi affreschi fra monumentalità michelangiolesca e dolcezza del quotidiano vibrano nel caldo e trasparente abbraccio dei colori mai troppo vivaci. La luce rompe l'oscurità sironiana perché l'approdo di Carlo alla pittura è festoso e pieno di fiducia.

In mostra una cinquantina di disegni sottolineano la meticolosa attenzione del maestro ai particolari. Nell'affresco Sbisà può veramente essere il pittore perfetto, Afro invece svela la propria fantasia lasciando già intendere la voglia di un andare oltre. Due anni dopo l'esperienza all'Opera nazionale Balilla - intercalati da un viaggio a Parigi dove conosce dal vivo i quadri degli impressionisti - il nuovo linguaggio secondo una parte della critica si riverbera sugli affreschi di Casa Cavazzini decantandone il seicentismo in richiami veneziani.

La mostra udinese a cura della conservatrice Vania Gransinigh e di Massimo De Grassi dell'Università di Trieste onora Sbisà (1899-1964) alla vigilia del cinquantesimo dalla morte. Afro nell'aprile del '47 ricambia l'ospitalità dell'amico trovandogli un piccolo spazio a Roma, la Galleria Sant'Agostino, dove con commenti lusinghieri espone per la prima volta quadri e sculture.

E durante le cene romane con Afro, il fratello Mirko e Gentilini, oltre a gustare per la prima volta la pizza, Carlo e Mirella sono esortati a seguire la strada della ceramica. Ma questa è un'altra storia.

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