Addio all'uomo che sussurrava ai trattori VIDEO

TRIESTE E' morto Delio Foschiatti, l'uomo che sussurrava ai trattori, nella sua casa di Mariano di Porpetto, accanto alla roggia del vecchio mulino. Chissà se qualcuno se ne sarà accorto nella Bassa friulana. Aveva 77 anni e una sola passione: le macchine che avevano rivoluzionato la vita agricola. Ne aveva radunate più di cinquanta, pezzi rarissimi, dalle trebbiatrici del film Novecento fino alle bestie d'acciaio della Russia di Stalin, e aveva dedicato vita tempo e denaro per un sogno: offrire alla sua terra quella collezione unica in Italia per realizzare un museo del Novecento contadino. Ma quel sogno si è infranto per la sordità e la mancanza di visione di un'intera classe politica. Oggi i suoi monumenti d'acciaio languono sotto una tettoia della fattoria regionale Volpares, che pareva averli adottati e invece li ha abbandonati senza sorveglianza né tabelle illustrative né biglietto d'ingresso. Monumenti a un'economia che ha perso la memoria.
“Se mi faranno un monumento, lo avrò da morto”, mi disse l'ultima volta. “Mi sono ammalato di nervoso. Ho speso soldi, tutto quello che avevo. I miei cinquecento euro di pensione. Ho avuto infinite promesse, sono andato su e giù da Porpetto alla fattoria Volpares infinite volte, e non s'è concluso nulla. Quelli chiedono, chiedono per far voti. E non danno niente”. Aveva un testone d'ariete, occhi chiarissimi, mani come pale meccaniche e un cuore ardente di sdegno. “Dico ai miei amici: vi par possibile che mi capiscano più i triestini dei friulani?”: così ghignava, quando arrivavo con mio fratello veterinario, uno che aveva appoggiato in pieno la sua idea, lottando contro i mulini a vento.
Queste sono le parole che mi disse in quell'ultimo incontro e che ebbi il torto non pubblicare allora. “Ho 77 anni, dormo poco e penso molto. Vuoi fare il conto della mia vita? Due anni a gattonare, 25 da contadino, 25 da conducente di scavatori e 25 a raccogliere trattori d'epoca. Ho disfatto montagne con queste mani, avrei un libro da scrivere”. Gli mostrai una foto a colori dei trattori del piccolo museo di Ajoie, nella Svizzera francese, tutti belli lucidati, con orari, numero di telefono, mail e tariffa d'ingresso. Delio quasi pianse di rabbia. “Ecco! Così si fa! Dimmi perché qui non ne sono capaci? Il Friuli si vergogna di avere avuto il padre agricoltore. Preferisce passare le domeniche nel supermercati: guardi quante macchine nei parcheggi, tutti lì a spendere. Non sappiamo niente della nostra storia”.
“Hanno usato le mie macchine per fare la festa della mucca pezzata rossa e poi per la festa della trebbiatura. Ho tirato fuori la mia trebbiatrice, una cosa enorme, gliel'ho portata, sempre a spese mie, poi tutto il guadagno è andato ai preti e a me non hanno manco detto grazie. E poi le feste della porchetta. Tutti lì, i politici, a farsi belli. Il sindaco di Palazzolo si è ingrassato con gli eventi, poi si è dimenticato di tutto. Ci fosse almeno uno in Comune con un briciolo di passione! Lo sai quanto hanno lavorato i nostri vecchi per avere un trattore? Se non capisci la tua storia non hai futuro! Ma sai Paolo, io non mi arrendo. Io dei politici faccio a meno e tiro avanti per la mia strada. Battaglia! La mano devono darmela quelli come voi”.
Era un torrente in piena. “L'Ersa ha avuto centomila euro per fare un museo della civiltà contadina. Li ha usati per togliere l'amianto da una tettoia e poi non ha fatto altro. Mi hanno illuso, poi mi hanno mollato. Non hanno capito che quel progetto era il simbolo del risveglio di un territorio, la Bassa, che è sempre stata serva di tutti. Quando ho portato per la prima volta i trattori a Marianis, i vecchi hanno pianto. C'era tutto un mondo in quelle macchine! Ti rendi conto? Il museo poteva essere il modo per svegliare la pianura con l'orgoglio delle radici e far arrivare turisti da Grado, da Lignano, da Aquileia, dal parco delle risorgive. Lo sai, triestin, quanto piacciono ai bambini i trattori? E lo sai che il bosco di Muzzana, qua vicino, è l'ultimo bosco selvaggio di pianura di tutta la regione?”.
Quando andammo a vedere le sue bestie – perché tali erano, parevano elefanti e cinghiali – non sapevamo che fosse per l'ultima volta. Erano lì, abbandonate, con una ruota sgonfia sì e una no. Capisaldi della meccanica, come il "Landini" a testa calda si accende con un fuoco sotto, o l' “Allgaier” carrozzato grigio, che lo metti in moto infilando una sigaretta sotto il muso. Mostri come il mietitrebbia "Laverda" o il rosso "Oto Melara" rosso del 1952, coperti di polvere. “Questa roba lasciata così non ha senso”, disse accarezzando la scocca verde di raro “M.a.n. Ackerdiesel”. E ringhiò: “Questi mi hanno messo contro anche i figli. Gli dicono: dì a tuo padre che butti via tutto. Io lo so perché. Se tu offri a quella gente idee buone, e lo fai gratis, ti scavi la fossa, perché non hanno da spartirsi nessuna torta. In Italia solo i matti coltivano la memoria”.
Guardò sospirando la campagna verde smeraldo punteggiata di papaveri. “Pensa questo posto con cavalli e tanti bambini! Sarebbe magnifico”. Non gli dissi che quelle sue macchine mitologiche che avevano dato da mangiare a tre generazioni di italiani sarebbero state perfette per un “Orlando Furioso” di Ronconi o un concerto di Capossela. Non gli dissi nemmeno che la Regine si era mangiata 18 milioni di euro per propagandare un “Tipicamente Friulano” fatto di sole etichette perché l'agricoltura regionale era in mano a un'oligarchia attenta solo al suo tornaconto. Lui voleva ancora combattere. Diavolo se voleva! Un giorno m'aveva detto: “Guai se aspetti che facciano gli altri. Fasin di bessoi, e io ho imparato a far da solo”. Poi, agitando il pugno, aveva aggiunto: “La battaglia! La battaglia!”.
Buon viaggio Delio. Ti vedo svanire tra i pioppi, armato di chiavi inglesi, tenaglie ed elettrodi, a bordo del tuo amatissimo Landini.
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