Tommasi, il sindacalista del calcio

L’ex azzurro tra ricordi e attualità: «Non conta solo la tv, troppi presidenti non all’altezza»
Di Andrea Sarubbi

ROMA. Già da calciatore, si capiva quanto Damiano Tommasi fosse una persona speciale. Da quando, nel 2005, firmò un anno di contratto con la Roma a 15mila euro, per ripagare la società della vicinanza durante un grave infortunio e per dimostrare a se stesso di essere ancora in grado di giocare. Perché il calcio, per Tommasi, è innanzitutto un gioco: che sia ai mondiali con la Nazionale o in seconda categoria con la squadretta del suo paese. Dal 2011 è alla guida dell’Associazione italiana calciatori.

Damiano, si ricomincia. Che campionato sarà?

Lo vedo simile a quello degli ultimi anni: da un lato, la Juve che cercherà di vincerlo; dall’altro, il resto d’Italia unito nella speranza che la Juve lo perda. Del resto, i bianconeri stanno raccogliendo quanto seminato negli ultimi anni, in cui sono stati capaci costruire un progetto su un gruppo già forte. La differenza tra costruire e improvvisare è notevole, e nella Juve si tocca con mano. Le due milanesi, invece, sembrano sempre all’inizio di un progetto, e anche quest’anno danno la stessa impressione.

Non ha citato la Roma.

La Roma c’è, ma deve ancora fare quel salto che le manca, e non a livello tecnico. Mi spiego: lo sport è costruire i successi sulle sconfitte. Invece, a Roma non si riescono bene a gestire le tensioni, sia nel bene che nel male: ho visto troppi progetti bruciati in fretta per una sconfitta e troppa esaltazione per una vittoria.

A casa Tommasi per chi si fa il tifo?

Mia moglie andava ad aspettare all’aeroporto l’Hellas ai tempi di Bagnoli, ma da quando siamo sposati ha smesso di seguire il calcio da tifosa. Dei nostri sei figli, le quattro ragazze non sono particolarmente interessate all’argomento. Rimangono i due maschietti, che tifano per Hellas Verona e Roma (ma seguono anche il Levante, in Spagna): le squadre in cui ha giocato il papà.

A proposito di Spagna: oggi molti ragazzini italiani vanno in giro con la maglia del Barcellona e magari tifano per i blaugrana o il Real. Che cosa è cambiato?

È cambiato il mondo, a cominciare dai giochini elettronici e da internet. L’anno scorso ho portato allo stadio mio figlio, di 9 anni, a vedere Chievo-Juve. A metà del primo tempo mi ha detto che un giocatore della Juve aveva le scarpe uguali a Eriksen del Tottenham, perché nei videogame lo conosce a memoria. Ha imparato le bandiere dei Paesi del mondo attraverso l’album Panini. E poi naturalmente la Champions, prodotto globalizzato, fa il suo.

Ci mettiamo anche il fatto che, da Beckham in poi, i calciatori sono diventati sempre più uomini immagine?

In realtà, è così da parecchio tempo. I calciatori sono giovani, si prestano, hanno un grande appeal sul mercato e in particolare sui ragazzi, che poi determinano il mercato degli adulti. Quelli attuali sono un po’ più tatuati di noi, ma solo perché è più tatuata questa generazione.

Rispetto ai tempi di Tommasi, il mestiere di calciatore è diverso?

A me è toccato un periodo di transizione, perché ho iniziato a fare il professionista poco prima della sentenza Bosman. Oggi c’è minore stabilità: l’abbondanza nelle rose è notevole e l’incubo è quello di restare fuori. Così ci si allena semi-infortunati per non perdere il posto in squadra, o si cambia squadra ogni 6 mesi perché non si gioca. Si vedono grandi parabole in tempi rapidissimi: da giocatori determinanti a bidoni, e viceversa.

Si va veloci anche perché i media vanno veloci, e il calcio è sempre più un prodotto mediatico.

Si enfatizzano molto i diritti televisivi, forse troppo. Prima di tutto perché, se diminuiscono i soldi delle tv, al limite diminuiranno un po’ i ricavi e il business, ma non finisce certo il calcio né la passione. Non è detto che avere più soldi significhi per forza vincere: vediamo giocatori di medio livello pagati cifre impressionanti, ma la storia dimostra che i campioni si possono prendere anche a parametro zero. Non c’è un rapporto diretto matematico tra fatturati e risultati.

Però le società senza soldi spesso finiscono male.

Questo è un altro discorso, e riguarda la mutualità tra i campionati. Oggi in Italia una retrocessione è una sventura finanziaria, perché scendere in una categoria inferiore diventa un dramma per il bilancio... e quindi c’è spesso chi fa il passo più lungo della gamba o addirittura commette reati pur di non retrocedere. Con una mutualità diversa, invece, sarebbe tutto meno drammatico: si pensi all’Inghilterra, dove le società di Championship (la nostra serie B) fatturano molto bene. Ma ci sarebbe da aprire un capitolo sulla gestione delle società stesse, a cominciare dai presidenti.

Nel senso che non sono veri dirigenti sportivi?

Non solo: a volte non sono nemmeno veri imprenditori, anche se si definiscono tali, e i bilanci delle loro società lo dimostrano. Secondo me, l’Italia ha bisogno di una cantera dei dirigenti: il livello non è all’altezza di quello che muove il calcio, né delle aspettative sociali. Oggi avere una squadra di calcio è diventato un modo per avere consenso, ma ha poco a che vedere con le competenze, e questo si vede nella gestione delle società; la stessa assemblea di Lega assomiglia sempre più a un organo politico, in cui si contano solo i voti e si cerca di non scontentare nessuno per non perderli. Noi ex calciatori possiamo aiutare a cambiare le cose, se ci prepariamo seriamente a una carriera nei ruoli dirigenziali: lo dimostrano diversi campioni che, lasciato il calcio giocato, hanno dato molto anche dietro a una scrivania.

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