Poz: «Ho la testa a posto ma resto il muleto che Micol ha fatto innamorare del basket»

TRIESTE Gli autografi finora li aveva fatti sulle magliette. O sui palloni da basket. Adesso invece la firma di Gianmarco Pozzecco accompagna un libro. Il suo. Duecentosettantasei pagine in cui racconta sè stesso senza sconti nè compiacimento. Con, inutile dirlo, tanta Trieste dentro. Quella Trieste che domenica affronterà da coach avversario nella sua Sassari. Eccolo là, il Poz. Tra il suo “Clamoroso” (scritto con Filippo Venturi per Mondadori) in odor di besteseller sportivo e una partita contro la squadra della sua città.
Pozzecco, ma perchè “Clamoroso”?
Perché è una parola che ripeto spesso. Io e Venturi non riuscivano a trovare un titolo, mi è venuto spontaneo dire “Clamoroso, no?”. Ci siamo guardati. Ecco il titolo.
Come mai si è deciso a confessarsi in un’autobiografia?
Volevo raccontare la mia vita per farme un reperto di un Gianmarco che non esiste più. Il Poz che faceva casino e giocava.
Da quando non esiste più?
Dal fidanzamento con Tanya. Io quando penso alla mia vita la divido in due. Prima di Tanya e dopo Tanya. Come prima e dopo Cristo. Con lei sono cambiato.
Il libro è dedicato a tre persone. Mamma Lalla, il vero coach in casa Pozzecco, papà Franco e...
...E Tullio Micol. In realtà quando ho iniziato il libro sono partito proprio dalla dedica. Micol mi ha insegnato quelle due o tre cose fondamentali per vivere nel mondo dello sport. Cioè, praticamente, tutto. Va bene il talento ma Tullio mi ha permesso di esprimermi. Mi ha trasmesso la passione. La dedizione di un uomo che finito di lavorare per 7 giorni su 7 viveva in palestra. Se amo il basket è merito suo. Un punto di riferimento. L’ho voluto come padrino alla mia Cresima. In chiesa c’erano i miei parenti che si chiedevano chi fosse quel signore accanto a me che non avevano mai visto prima. Era il mio allenatore! Ed ero orgoglioso di averlo accanto. Su di lui ho costruito le mie basi. Un maestro, e in quegli anni ce n’erano altri a Trieste. Franceschini alla Sgt, Pistrin al Don Bosco, Pituzzi alla Libertas, Stibiel e Bevitori ai Ricreatori.
Cosa le è rimasto di quegli anni?
Tutto. Non me la sono mai tirata da professionista. Sono rimasto un triestino mona per sempre. Micol mi ha insegnato la bellezza della vittoria. Io non faccio distinzioni tra i successi. Sono contento anche se ripenso a quando vincemmo con mio fratello la prima fase degli Studenteschi con l’Oberdan e con una squadra di disgraziati andammo a Castelfranco Veneto in treno per sfidare quelli di Venezia, tutti perfetti nelle loro tute uguali. Noi, poveri sfigai.
Però ci sono comunque momenti speciali. Lo scudetto della stella a Varese. L’argento olimpico.
Quella medaglia Franco l’ha messa al sicuro in banca per paura che la regalassi...Lo scudetto a Varese è stato storico ma l’ho vinto con un gruppo di amici, vivendo con gioia e semplicità. Ne ho di storie. Con De Pol e gli amici che venivano a trovarci da Trieste siamo riusciti a insegnare il dialetto a tutti i compagni di squadra. Avevo i capelli colorati, qualcuno pensava mi drogassi perchè c’erano momenti in cui esplodevo in una felicità disumana. Storie. Ho fatto sempre l’atleta. Mi divertivo quando potevo, la domenica sera finita la partita. Si andava a Milano per locali. Vi racconto questa. In uno di questi posti veniva un omino, mezzo guercio, che passava a vendere le prime copie della Gazzetta. Quando io giocavo bene mi portava la rosea, felice. E io gli sorridevo e gli davo una banconota da 50mila lire. Era un nostro momento di condivisione, eravamo contenti in due.
Il Poz giocatore rigoroso è una scoperta.
Ripeto: mi sono divertito ma non ho mai trascurato un impegno. Varese contro Milano il primo gennaio. Coach Bianchini a San Silvestro concede la libera uscita fino all’una di notte, poi tutti in albergo. Io sono con i mei e alle 23.15 guardo l’orologio e dico: brindiamo adesso, che poi vado in hotel. Bianchini vede che entro in albergo, gli dico che vado in camera e lui mi fissa. “Mi stai prendendo per il culo? So che poi esci dalla finestra e vai a tirare tardi”. Gli ho risposto: “Coach, hai ragione. Ma hai sbagliato persona. Vado a dormire e domani ne faccio 30”. E il giorno dopo i 30 li metto....
C’è tanta Trieste nei suoi racconti.
Per forza. Parlo di Radovani o di Moschioni che mi convinse a lasciare perdere il calcio con il Chiarbola. O del mio amico fraterno Ricky Russo. O Marco Porcelli. Fino ai 17 anni ho giocato a Trieste e non li considero anni inutili. Se mi dicono mona de un triestin non mi offendo mica. Lo sono. Sono rimasto quello lì, che non cerca scorciatoie, che ama i rapporti diretti. Il professionismo non mi ha sporcato.
Domenica al PalaSerradimigni arriva l’Allianz.
Sono contento che il campionato sia partito. Trieste è stata brava l’altro anno a sistemarsi dopo la burrasca. Eugenio è una garanzia e mi piace sottolineare che si affrontano due società sane. L’Allianz e la mia Sassari non hanno fatto il passo più lungo della gamba nei mesi scorsi, hanno capito lo spirito con cui gestire questa fase post lockdown.
Il giocatore sassarese che più preoccupa i tifosi triestini è Bilan.
Giocatore straordinario. Se allenassi in Eurolega è il primo nome che vorrei. Ragazzo d’oro, si allena sempre, capisce il basket. Da avversario lo temerei anch’io. —
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