Pieri: con l’Italia di Roma ’60 sfidai il primo “Dream Team”
TRIESTE. La prima grande Nazionale Usa, 30 anni e più prima del “Dream Team”? Lui l’ha affrontata. La nascita del grande Simmenthal? Lui c’era. L’Hall of Fame del basket italiano? Lui c’è.
Gianfranco Pieri, che sarà tra i nove sportivi premiati venerdì prossimo alla Sala Tripcovich nella serata “Trieste onora i suoi campioni ricordando Giordano Cottur”, adesso è un signore di quasi 77 anni che vive a Milano (dove ha giocato per buona parte di una carriera conclusa a Gorizia) e appena può torna a Trieste e ora segue il basket con signorile distacco, ché i tempi sono cambiati e adesso quella pallacanestro lì è tutta un’altra storia. Per dare un’idea del personaggio: Dan Peterson in un numero ormai ingiallito dei “Giganti del Basket” scriveva «Pieri è stato unico. Era un Mike D’Antoni nato vent’anni prima»...
Una carriera iniziata secondo la più classica tradizione triestina.
Ovviamente al ricreatorio e poi alla Sgt... Frequentavo il Giglio Padovan, era la fine degli anni Quaranta. C’erano dei canestri e cominciai a giocare spinto dalla curiosità. Altri tempi, i palloni - o pallonesse, come li chiamavamo - pesavano un’enormità. Videro che non ero scarso e mi ritrovai alla Ginnastica Triestina. L’ingegner Lenghi allenava gli allievi, mi diedero fiducia. Un bel gruppo, arrivammo per due anni di fila alla conquista dello scudetto juniores.
In quella squadra c’era anche Claudio Boniciolli.
Sicuro, e d’estate giocavamo a pallanuoto con l’Edera. A quei tempi noi “muleria” facevamo così: d’inverno la pallacanestro e d’estate gli sport acquatici. Non eravamo bravi come Rubini, però, anche se non me la cavavo poi malaccio.
Poi, il salto in prima squadra.
Giocavo ancora pivot. Prima partita contro la Pesaro di Riminucci. Segno 35 punti. La domenica dopo affrontiamo a Milano il Borletti campione uscente che aveva appena “asfaltato” Varese. Mi ripeto e vinciamo. Da quel giorno Milano mi marca stretto...
E alla fine il passaggio in Lombardia diventa un epilogo scontato.
Milano era diventata una specie di succursale di Trieste. Fabiani, Rubini, Romanutti. Gettiamo le basi di quella che sarà il grande Simmenthal. Quattro anni ininterrotti di scudetti, poi tiriamo il fiato e infine riprendiamo la serie. Nove titoli in bacheca.
Con l’impronta di Cesare Rubini.
Non faccio un torto alla sua memoria se dico che non era uno stratega della panchina. Il “Principe” era il primo a non ritenersi un allenatore classico. Ma era formidabile nel riconoscere il talento. Aveva grandi intuizioni. Fu lui a spostarmi da pivot a...play. Mi cambiò la carriera e, vista com’è andata, lo ringrazio ancora adesso che non c’è più. Era un geniaccio nella commercializzazione del basket, quello che oggi definiremmo marketing. Ci fece calzare le scarpette rosse entrate poi nella leggenda, sfoggiammo per primi i calzettoni tubolari, i calzonici di raso. E pensare che all’epoca qualcuno ci prendeva pure in giro.
Inevitabile l’approdo in azzurro. Olimpiadi di Roma 1960. Tra gli avversari gli Usa di Jerry West, Oscar Robertson, Walt Bellamy.
Si dice che quella fosse una delle migliori Nazionali Usa e sono d’accordo. Il livello medio del talento di quei giocatori? Infinito. Segnarono un’epoca anche nella Nba. Con le gare degli azzurri inaugurammo il Palazzone dello Sport di Roma, portammo una partita di pallacanestro in diretta tv. Peccato per la sconfitta con il Brasile ai supplementari che ci tolse il primo posto nelle qualificazioni, avremmo meritato di finire sul podio e invece ci ritrovammo quarti.
Adesso come vive il basket?
Soprattutto alla tv o leggendo. Quelli dell’Olimpia Milano mi hanno invitato ai loro incontri ma il Forum è lontano da casa mia e, lo ammetto, il basket d’oggi non mi attira troppo. Le squadre cambiano giocatori con troppa frequenza, i tifosi non riescono ad appassionarsi. Una società dovrebbe investire su un nucleo di 5-6 giocatori e invece che ti fanno? Ogni estate tabula rasa.
Il rapporto con Trieste?
Ci vengo spesso, ho qualche buon conoscente. Una chiacchierata con Giulio Iellini la faccio sempre volentieri. All’”Ausonia” rivedo volti amici. Pensate, ad esempio, che Imelda Pressushi, gloria della Sgt, potrei vederla facilmente tutto l’anno a Milano e invece ci incontriamo solo a Trieste, al mare.
Pieri, ci aiuti a trovare una risposta. Lei, Iellini, Pozzecco, Attruia, Pecile. Segni particolari: tutti play o play-guardie, tutti triestini (anche se il Poz anagraficamente è goriziano), tutti finiti in Nazionale, però tutti emigrati per affermarsi ad alto livello. Perché?
Perché oggi come allora c’erano problemi economici e chi voleva fare davvero il giocatore professionista doveva andarsene. Poi, com’è ovvio, ogni vicenda è diversa. Trieste ha sempre prodotto “piccoli” di valore, con personalità e senso del canestro. Giocatori ruspanti. Una vena che non credo si sia inaridita. Spero riesca a tenerseli.
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