Padre mister e figlio in campo: «Basta rispettare le regole»
TRIESTE. Allenare il proprio figlio è una cosa che non desta grandi stupori negli sport individuali. Pensiamo ad esempio a Tania Cagnotto allenata dal padre Giorgio e senza spostarci troppo possiamo ricordare Noemi Batki, allenata dalla madre Ibolya Nagy. Nel calcio però questa cosa viene vista sempre un po’ male».
Fabrizio Vescovo, nella vita di tutti i giorni titolare di una macelleria a San Giacomo, racconta il rapporto instauratosi da diversi anni con il suo figlio più giovane, Matteo, che il 25 aprile raggiungerà la maggiore età. L’allenatore di Matteo è da diversi anni il padre che lo ha seguito nelle categorie Esordienti, Allievi ed ora nella squadra degli U19 regionali (Juniores) del Kras Repen.
«In uno sport di gruppo come il calcio non c’è alcuna difficoltà nell’allenare o nel fornire indicazioni durante una partita al proprio figlio. Anzi, questo rapporto allenatore-giocatore non può che rinsaldare quello di padre-figlio. L’importante è rispettare alcune regole ben precise», svela Vescovo senior.
La prima questione importante riguarda il valore del proprio figlio-giocatore, che deve essere messo sullo stesso piano degli altri compagni di squadra: «Matteo non ha mai avuto trattamenti di favore o di sfavore. La riprova c’è stata anche qualche settimana fa, quando nella vittoriosa trasferta di Tricesimo ho deciso di non convocarlo perché non era riuscito ad allenarsi bene in settimana. Quello di allenarsi con regolarità è una norma che vale per tutti. Nessuno escluso». E sono capitate anche occasioni per cui Fabrizio Vescovo non si è fatto scrupoli nel togliere il proprio figlio centrocampista anche dopo la fine del primo tempo. Un’altra regola ferrea riguarda lo spogliatoio: ciò che viene detto tra i giocatori deve rimanere tra i giocatori.
«Può non essere sempre semplice per i compagni di squadra vedere in Matteo un giocatore come gli altri, ma con il lavoro e la costanza mio figlio si è guadagnato la fiducia dello spogliatoio. Quello che si dicono tra di loro, a me non interessa perché deve rimanere tassativamente all’interno del gruppo. Inoltre una volta finita la partita del sabato non si parla di quanto accaduto durante il match in famiglia, ma si attende il primo allenamento utile della squadra per analizzarlo tutti assieme».
Ma è difficile avere un padre come allenatore?
«Il figlio dell’allenatore deve dimostrare qualcosa di più degli altri, questo è vero – conclude Vescovo senior - e ci può essere il rischio di uno stress per questa situazione. Per fortuna Matteo ha trasformato questa situazione in una sfida produttiva. Vuole dimostrare ogni giorno di non avere favoritismi, lavorando sodo, motivo per cui si è conquistato la stima dei suoi compagni di squadra».
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