Mirco Gubellini: «Non me lo aspettavo. A Trieste i miei 10 anni più belli»

TRIESTE. «La prima sensazione? Di sorpresa». Mirco Gubellini ammette che non se l’aspettava di essere eletto Alabardato dal secolo e di vincere il sondaggio web del Piccolo. «Sono sorpreso perché credo siano passate decine di giocatori migliori, prima e dopo la mia epoca. E poi sono anni che non frequento l’ambiente, sono fuori un po’ da tutto. Penso lo meritassero di più, ad esempio, Costantini e Godeas: li ho sempre visti come l’immagine del passato e del presente dell’Unione quando giocavo, due icone. E poi penso a tanti altri di altissimo livello».
Ai tifosi cosa dice?
«Li ringrazio: è stata una dimostrazione di stima e simpatia nei miei confronti, un enorme gesto di affetto. Affetto che ho sempre avvertito e ricambiato. Mi emoziona che la gente abbia ancora ricordi positivi di me. Già essere nei primi cinque sarebbe stato un orgoglio».
Cosa può aver convinto i tifosi a darle tanti consensi?
«Non saprei, forse una serie di fattori. Negli anni d’oro della scalata c’ero sempre. A volte non titolare, ma sempre pronto e spesso decisivo con alcuni gol che la gente non dimentica. Mi legano delusioni con finali perse ma anche vittorie e gioie impossibili da cancellare».
La Triestina cosa ha rappresentato per lei?
«Il decennio più bello della mia vita. Trieste mi ha fatto crescere, la vivevo a 360 gradi, anche fuori dal calcio. Dopo l’esperienza alla Spal ritornai e anche se ebbi un paio di super offerte, le rifiutai: oramai Trieste era casa mia».
Quali erano queste offerte?
«A Lignano vidi Dal Cin per firmare con la Reggiana un triennale a cifre mai viste prima. Non riuscii a firmare e me ne tornai a Grado in vacanza con moglie e figli, aspettando una proposta dalla Triestina, anche se non ero sicuro di rientrare nei piani futuri. E poi l’anno dopo con lo Spezia di Mandorlini: in 5 lo seguirono in quell’avventura, altro contratto a grosse cifre, ma la sera prima di partire gli dissi che non me la sentivo. Si arrabbiò molto. Ma la Triestina era la mia squadra: un legame troppo forte».
Come arrivò in alabardato?
«Fu Massimo Pavanel, con cui avevo giocato nella Centese, a portarmi a Trieste. Ero in ritiro con il Carpi, Pavanel mi chiama e dice “siamo in Interregionale ma possiamo essere ripescati in C2: vieni qua e tentiamo la scalata”. Mi convinse e andai a Forni in ritiro. Quello fu un gruppo speciale. La società l’anno prima era fallita, non avevamo nulla: se calciavi di collo i palloni scoppiavano, per i salti c’era il braccio del magazziniere, le tute dopo un lavaggio avevano maniche dimezzate e cerniere che saltavano. Ma c’era un grande staff: Roselli, Marcuzzi, Bertani, Jurada: qualcuno è nell’attuale Triestina, gente innamorata dell’Unione».
Oltre a Pavanel, chi ricorda con maggior piacere?
«Con Polmonari siamo amici per la vita. Poi Caliari: quando ci giocavo contro erano botte e insulti. Poi arriva alla Triestina, entra nello spogliatoio, ci guardiamo un paio di secondi e ci abbracciamo: è diventato uno dei miei migliori amici. Poi sono legato a Ciullo: eravamo in concorrenza, ma non c’era mai competizione, anzi andavamo assieme in vacanza. E poi Bega, Borriello e De Poli».
Un rammarico?
«Il gol che segnai a Messina e che virtualmente ci portò in serie A per una decina di minuti, prima dell’autogol di Parisi. Quello sì che sarebbe stato il gol della favola finale dal fallimento alla seria A».
Si sente più triestino o modenese?
«Quando qui negli Usa mi chiedono di dove sono, rispondo di Trieste, una città vicino a Venezia. Mi viene naturale. Ho 4 figli triestini con due donne triestine. Quando lavoravo per il Milan venivo più spesso, ora ogni due mesi circa».
E i figli che dicono degli States?
«Con i più grandi Matteo e Martina abbiamo visitato tutta la parte est, la prossima estate facciamo la ovest e rientriamo in auto su Miami. Adorano queste avventure, fin da piccoli fanno l’estate qua. Ho cercato di convincerli a studiare qui, ma sono triestini dentro. Diego e Alessio sono gemelli e più piccoli, hanno iniziato la scuola a Miami e per loro è il contrario: fanno l’inverno qui e l’estate tra Trieste e Grado. A Modena ci sono mia sorella e i miei genitori. Ci andavo di più quando Matteo era al Sassuolo».
Come è finita con il Milan?
«Ho lavorato 7 anni come direttore delle scuole calcio Milan negli Usa: Miami, Boston e Detroit. Poi il progetto fu ridimensionato: mi proposero la Cina ma rifiutai. Volevo restare negli Usa e 4 anni fa mi sono legato al Weston, a livello giovanile tra i club più grandi in Florida. Con Sbrizzo, ex Napoli, Padova e Pescara, alleniamo gli allenatori e insegniamo la metodologia. Di Miami mi piace il clima e la passione per il calcio dei sudamericani. Anche Boston e Detroit mi piacevano, ma faceva troppo freddo e poi troppo calcio al coperto».
A Miami ha giocato anche Lambrughi…
«Sono andato spesso alla Barry University a vedere il Miami di Nesta. Nella lista vedevo il suo nome italiano ma non lo conoscevo. Mio figlio Matteo dice che è un grande giocatore. Silenzioso, ma grande leader».
A proposito di Matteo, che effetto fa vederlo con la maglia alabardata?
«Sono felice, che emozione quando ha esordito al Rocco. Era il suo sogno fin da bambino. È orgoglioso di indossare la maglia della Triestina, lui andava in curva anche negli anni dell’Eccellenza, è un grande tifoso».
Può ripercorrere le orme del padre?
«Poteva giocare qui, per la squadra riserve dell’Orlando City, nella MLS, gli pagavano scuola, vitto e alloggio. Ma lui sogna di giocare a calcio e gli lascio vivere il suo sogno. Solo una cosa gli ripeto: i sacrifici non sono mai abbastanza. Quando pensi che stai facendo tutto il possibile, fai un errore. Si può sempre fare di più. Non so se farà di più o meno di me. L’importante sarà non avere rimpianti e averci veramente provato».
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