Meneghin: «Felicissimo per Trieste in A» IL RADUNO: VIDEO E FOTO

L’INTERVISTA
Trieste Se Trieste può fregiarsi di avere un passato cestistico glorioso lo deve anche ai protagonisti che hanno calcato il parquet di Chiarbola prima, quello del PalaRubini poi. La stella più luminosa del firmamento è sicuramente quella di Dino Meneghin, mito nazionale, uno per capirci che quando atterra a Tel Aviv viene accolto come Cristiano Ronaldo, un Hall of Famer che ha scritto gli ultimi capitoli della sua storia dal ’90 al ’93 in maglia Stefanel.
Meneghin, che effetto fa rivedere Trieste in serie A?
«Sono molto felice. Conosco molto bene la passione cestistica triestina, finalmente una società seria è stata in grado di ricostruire con pazienza e abilità una realtà credibile. Son contento perché l’eccellenza è stata raggiunta per meriti sportivi, ci sono tutti i presupposti per un futuro solido».
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Città spesso in credito con la pallacanestro a livello di risultati. Questione di territorialità, tempi sbagliati o cosa?
«Diversi fattori. Certamente ai tempi dello scudetto di Milano con la squadra trasferita da Trieste una tempistica sbagliata c’è stata. Avessero costruito il palazzetto, come voleva da tempo Stefanel, parlavamo di un’altra storia; il percorso di crescita intrapreso da Tanjevic e Crosato avrebbe portato il tricolore in città. Quella vissuta da Trieste è una delle tante storie di provincia, ammantate da nobiltà gestionali e tecniche, sgonfiate per sfumature decisive. Il fattore economico è un’altra variabile non trascurabile; uscito dai giochi il magnate di turno, senza il supporto dell’imprenditoria presente nelle grandi città, ecco che si torna daccapo».
Ci può essere ancora gloria per le provinciali del basket?
«La realtà delle metropoli ha spesso fatto spazio a quello delle province appassionate. Eccetto Milano e città grandi per bacino quali Torino e Bologna, spesso la parte del leone l’hanno fatta piccole e virtuose società come Cantù, Pesaro, Venezia. Anche il futuro penso possa allargare spiragli per altre contendenti al di là della superpotenza Milano; Brescia, Trento, Venezia, dimostrano che l’oro baskettaro italiano risiede in provincia. Attenzione però, chi non può contare su un impero economico deve per forza investire su competenze illuminate dietro la scrivania, nello staff tecnico in grado di instillare un’identità alla squadra».
Come vede l’Alma Trieste in serie A1?
«La mossa più importante è stata quella di confermare coach Eugenio Dalmasson. Dietro c’è la sicurezza di un general manager come Mario Ghiacci, c’è una società seria e ambiziosa che è cresciuta. La chiave sarà amalgamare un gruppo cambiato, capire quanto i nuovi arrivati siano in grado di calarsi nella realtà vincente che ha conquistato lo scorso anno la serie A. Trieste è un punto interrogativo, per essere neopromossa e vista l’impossibilità di tarare le avversarie, di certo l’obiettivo salvezza diventa il “must” stagionale, con motivanti ambizioni play-off».
Dopo tanti anni, il ricordo più fulgido di Trieste…
«Mi resterà sempre impressa il calore del pubblico e la cultura triestina nella sconfitta. Venivo da realtà come Varese ma soprattutto Milano in cui vincere era un dovere e perdere un’infamia; Trieste mi ha dimostrato che la discriminante non è la vittoria o la sconfitta, ma lo sforzo profuso sul parquet e il dare tutto per la maglia. Una grande lezione». —
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