L'ultimo avversario di Carnera
SEQUALS «Mein Freund». Amico mio. Due parole e una carezza sulla lapide. Poi l’ultimo avversario di Primo Carnera non è riuscito a trattenere l’emozione.
A 87 anni, Renè Lasartesse ha voluto visitare Sequals per vedere i luoghi del campione che aveva affrontato sul finire degli anni Cinquanta. Lasartesse all’epoca era agli inizi della carriera, Primo Carnera aveva 50 anni e, smesso con il pugilato, nonostante il fisico segnato combatteva match di wrestling. Bastava il nome per riempire piazze e arene. Una notorietà che impressionò Lasartesse. «Ovunque andassimo, si radunava una folla osannante. Mi faceva effetto vedere il mio nome accostato nelle locandine a quello di Carnera. E con Primo scherzavamo: in Italia prima c’è il Papa e poi c’è subito Carnera...»
LA MOSTRA Lasartesse, una vitalità appena appannata dagli anni e dalle stampelle con cui è costretto a spostarsi, è arrivato a Sequals grazie ad Argo Lucco, presidente dei Fogolar Furlan di Basilea, la città dove l’anziano wrestler è nato. Osserva con interesse l’allestimento a Villa Carnera della mostra dei pannelli di Davide Toffolo, che al campione di Sequals ha dedicato un apprezzatissimo libro di graphic novel. Lasartesse abbraccia con slancio sincero Karl, il nipote del campione.
Ha un rammarico, l’ultimo rivale di Carnera. «Ho tante foto che raccontano la mia carriera ma purtroppo nessuna immagine delle sfide con Primo. Mi rimangono solamente i ricordi. Il suo carattere, la sua bontà. Aveva un grande rispetto per gli avversari. Il fisico così imponente poteva incutere timore ma bastava parlare con lui per capire che davanti c’era una grande persona. Ricordo che una volta venne a sapere che il suo rivale, giovanissimo, era intimidito dalla prospettiva di dover lottare sul ring contro un mito. Carnera lo fece chiamare, se lo prese sottobraccio e lo incoraggiò».
IL WRESTLING Un’epopea di personaggi unici. E di storie. Come quella dello stesso Lasartesse, uno che nel corso della sua carriera ha cambiato più volte identità. Nato Edouard Probst, svizzero, germanofono finito in una scuola francofona, è diventato il tedesco Ludvig van Krupp, Jack Lasar, Jack de Lasartesse e infine Rene Lasartesse. Francese, biondo e cattivo. Un’identità completamente in contraddizione con la realtà. «Avevo i capelli scuri. Fu il manager a convincermi a ossigenarli per rendermi più riconoscibile sul ring. Carnera era il gigante buono, io il perfido biondo. Io. Mai stato cattivo in vita mia. C’è solo una cosa per la quale potrei arrabbiarmi davvero» e mima una sventagliata di mitra. Si fa consegnare il telefonino dalla moglie e mostra orgoglioso la foto della nipote, una bella ragazza a Maiorca, dove i Lasartesse hanno una casa e trascorrono buona parte dell’anno. «Ecco, diverrei molto cattivo solamente per difendere la mia famiglia».
VOLI E ALLENAMENTI Primo combattimento nel 1953, l’ultimo nel 1988, a sessant’anni. “L’aristocratico del catch”. “L’imperatore del catch”. I soprannomi di una carriera che lo hanno visto sostenere... «Milleduecento incontri. Lo so, sembrano numeri pazzeschi. C’erano anni in cui combattevo con una frequenza impressionante. Un giorno mentre guidavo da Parigi a Nizza guardando il cielo vidi un aereo ed ebbi l’illuminazione. Ero sempre stato appassionato di volo. E se mi fossi preso un aereo? Le trasferte sarebbero diventate più agevoli». Con rigore elvetico si iscrisse a un corso, conseguì il brevetto di pilota e fece quello che nessuno aveva ancora osato: pilotava il suo aereo fino alla città del combattimento, riposava il minimo necessario e la sera andava a combattere. Vincendo spesso e volentieri. «L’aereo era comodo e spesso invitavo a bordo altri lottatori. Certi però erano davvero colossali e dovetti far togliere dei sedili..»
«Eravamo campioni veri. Certo, nei nostri match di wrestling facevamo anche spettacolo. Ma quanti allenamenti c’erano dietro. Io salivo sull’ultima corda del ring e dà lì mi buttavo addosso all’avversario. L’effetto era scioccante. Il pubblico vedeva un uomo di 195 cm e di oltre un quintale planare con un ginocchio sulla gola di un altro. Ma la gente non poteva sapere dei giorni di allenamento, provando e riprovando quella mossa su un palloncino gonfiato d’aria. Tutto doveva essere perfetto. Io ero perfetto. Altri tempi».
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