Le magie di Mangiafuoco ci mancano da 20 anni

Sfidava gli avversari. Sfidava la legge di gravità. Ha cercato di sfidare anche il destino. Venerdì saranno vent’anni che ci manca Conrad McRae. Mancano la sua voglia di coniugare agonismo e spettacolo, la gioia di regalare emozioni al suo pubblico, un sorriso contagioso, la sua generosità, l’essere personaggio e rimanere puro, vero.
Vent’anni. Chiedimi chi era “Mangiafuoco”. Anzi, chiedimi perchè era “Mangiafuoco”. Soprannome nato andando a schiacciare sopra tre uomini con un pallone infuocato durante un All Star Game. La schiacciata elevata a gesto artistico. Potenza e bellezza. L’esaltazione dell’atletismo. Il gesto sportivo che più di tutti riesce a far ritornare bambini gli spettatori, occhi sgranati e bocca aperta.
LA CARRIERA. E di schiacciate, nella sua giovane vita, Conrad McRae ne aveva firmate tante, da una parte e dall’altra dell’Atlantico. Newyorkese classe 1971, 206 cm per 105 chili, aveva cominciato a giocare alla Brooklyn Technology High School. «Ero al secondo anno, durante una partita il coach chiamò uno schema costruito per mandare a canestro il nostro capitano. Ma quel giorno il capitano non c’era, scelse me. Dovevano passarmi la palla vicino al ferro, il passaggio arrivò e schiacciai al volo. Era la prima schiacciata ed ero alto “solo” un metro e 90». Da allora aggiunse parecchi centimetri e migliaia di affondate. Syracuse University. La chiamata dal draft Nba: numero 38 al secondo giro, pescato da Washington che cedette i diritti a Minnesota. L’Europa per consolidarsi prima di tentare davvero la strada dei pro. Tanta Europa. Turchia (Fenerbahce), Francia (Pau Orthez), ancora Turchia (Efes Pilsen), finalmente Italia (Fortitudo Bologna), Grecia (Paok Salonicco) e per la terza volta Turchia (Fenerbahce). Nel 1999 Trieste. L’ultima fermata.
TRIESTE. «Non vengo a fare la superstar, voglio solo essere di aiuto alla squadra». Si presentò così, Conrad McRae, a Trieste. Provando a chiedere l’amato numero 13 già proprietà di Semprini e poi accontentandosi del 9. Ma sarà il 13 che verrà ritirato, dopo la tragedia. Un’operazione impegnativa per l’allora Telit. 500mila dollari. Ripagati con 18 punti, 10,7 rimbalzi, due stoppate e 1,5 schiacciate. Ma i numeri non dicono tutto anche se quelli dell’ultima giornata di campionato contro la Benetton Treviso, buoni per i bonus previsti dal contratto, furono da fantascienza: 50 di valutazione, 24 rimbalzi, 7 stoppate. Portò quella Telit di Banchi all’impresa di espugnare il PalaEur nei play-off, giocando con la morte nel cuore per la scomparsa del padre ma nascondendo il dolore con il sorriso, invitando i compagni a festeggiare al Gilda e bruciando la carta di credito.
L’AMICO. «McRae è stato senza dubbio una delle persone che maggiormente ha lasciato un segno nella mia vita, la sua assenza anche oggi a vent'anni dalla sua morte si fa sentire tantissimo». Giancarlo Palombita, l'amico con cui Mangiafuoco aveva legato maggiormente nella sua esperienza triestina, descrive così il rapporto speciale che aveva con il "signore degli anelli". «Era una persona generosa, capace di emozionarsi e di fare felici coloro che aveva attorno. Gli ho visto regalare un paio di scarpe a un tifoso al termine di un allenamento, l'ho sempre apprezzato per quell'indimenticabile sorriso sul volto che riusciva a sfoderare anche quando le cose non andavano bene. Con me, poi, è stato davvero speciale. Un fratello maggiore con cui condividere i momenti importanti. Avevamo fatto mille progetti e sono sicuro che, se ci fosse stato, avrebbe mantenuto le promesse. Perchè lo ha sempre fatto».
Un'amicizia nata sul campo con McRae a fare da chioccia al giovane Palombita. «Ricordo un allenamento, alzai un alley-oop per Conrad ma la palla era davvero imprendibile e finì fuori dal campo. Banchi, giustamente, mi urlò di non fare il fenomeno, di stare concentrato e di giocare a pallacanestro. Il giorno dopo recupero palla, volo in contropiede e vedo McRae scattare verso il canestro. Gli alzo un pallone molto peggiore di quello del giorno prima. Lui vola e non so come converte l'assist in una schiacciata delle sue. Mi guarda, sorride e passando davanti al coach gli urla "Good pass man". McRae era questo e molto di più. Mi ha insegnato tantissime cose, a essere sempre positivo e prendere la vita nella maniera giusta. Gli avevo fatto una promessa e l'ho mantenuta. Mio figlio si chiama Marcel Conrad, in onore suo».
LA FINE. Non sarebbe rimasto a Trieste. Troppo costoso il suo ingaggio. Troppo forte il desiderio di riprovarci con la Nba. Al Palazzo non sarebbe risuonato più “Mangiafuoco chi è, il suo nome è Conrad McRae”. Sognava i pro. Si stava allenando in un camp degli Orlando Magic, in California. Lo aspettava un’amichevole contro i Lakers. Il 5 agosto avrebbe dovuto sposarsi con Erika. Era a un passo dai sogni.
La notizia, sconvolgente e inattesa. Conrad McRae stroncato da un attacco cardiaco a 29 anni. Una forma congenita di tachicardia ventricolare, si sarebbe appreso dopo. L’estate precedente era svenuto durante un camp a Denver e gli era stata riscontrata un’aritmia cardiaca che avrebbe consigliato di chiuderla con il basket. Aveva giocato con quel segreto. Continuando a sorridere. Continuando a schiacciare. Continuando a rincorrere i sogni. —
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