Il ponte tra Trieste e il Milan e una generazione di tifosi: tutta “colpa” del Paron
Dopo l’addio alla A dell’Unione, erano stati i triestini al Milan a far sentire di riflesso Trieste ancora nell’olimpo del calcio
TRIESTE Chiamatela sindrome della Fatal Verona. Quel sottile brivido, una lieve preoccupazione che si sposa alla scaramanzia. Avere lo scudetto a portata di mano e vederlo sfumare. Come in quel maledetto 20 maggio 1973. O il 22 aprile 1990. Puf. Beffa e tragedia. E mica conta che al Bentegodi quest’anno sia andata liscia e domenica scorsa si giocasse al Mapei Stadium, a 120 chilometri di distanza dal luogo dei due misfatti. Si stava a Reggio Emilia. Città del tricolore, e già questo poteva sembrare un’avvisaglia buona. Macchè. La sindrome della Fatal Verona ciclicamente riassale e contagia il popolo rossonero. Almeno la parte di popolo - quella più stagionata - che quelle due domeniche lì dovette ripiegare striscioni e bandiere e guardare alla tv altri fare festa. È anche per questo che sul far della sera, l’altro giorno, i tifosi del Milan hanno aspettato prima di scendere in piazza dell’Unità d’Italia.
E ce ne sono, di milanisti a Trieste. Questione di tradizione. Questione di generazione. Molti appartengono agli anni Sessanta e non si tratta di una coincidenza anagrafica. Perchè il Milan in quegli anni era per certi versi il punto di collegamento tra Trieste e la serie A. La Triestina aveva lasciato il massimo campionato nel 1958-59 e quella è stata l’ultima volta in cui aveva visto in faccia l’elite del calcio nostrano. Ma c’era una Trieste che in A c’era e vinceva. Con il Milan, appunto. Nel calcio in bianco e nero della tv di Stato, nel calcio ancora non inflazionato dagli agenti, nel calcio degli anti-personaggi. O dei personaggi inconsapevoli, come Nereo Rocco.
Il Milan era “triestino” perchè il Paron non viveva rinchiuso in una torre d’avorio, inaccessibile. Via D’Angeli. Quale fosse la casa lo sapevano tutti. «Siora Maria el Paron xe qua?» Sotto il pergolato prima o poi passavano tutti. Arrivavano da Milano. Gianni Rivera. Gianni Brera. L’eccellenza del calcio e del giornalismo.
Ma la Trieste che vinceva con il Milan non si fermava qui. Cesare Maldini il posto nella storia del nostro calcio se l’è guadagnato con il racconto di una fotografia: il 22 maggio 1963 è il primo capitano di una squadra italiana a poter sollevare al cielo una Coppa dei Campioni. A Wembley, all’epoca più che mai tempio del football mondiale. Come dire entrare nella leggenda dalla porta principale. Milanista e triestino anche come Fabio Cudicini. Negli anni Sessanta da queste parti per i ragazzi i supereroi Marvel erano ancora una lontana suggestione americana. I super eroi erano nostrani, quelli della domenica sul campo di calcio. I soprannomi facevano sognare. E il “ragno nero” aveva un che di invincibile, una sorta di essere magico che ricamava ragnatele per rendere la sua porta inattaccabile. Che poi quel soprannome di “ragno nero” fosse dovuto solamente alla quasi funerea divisa indossata da Cudicini - che a Roma avevano ribattezzato ben più prosaicamente Er Pennellone - l’avremmo scoperto qualche anno dopo. All’epoca si sognava con poco. E tramite i triestini che avevano fatto grande il Milan ci si poteva sentire ancora in serie A.
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