Il dolore del figlio di Paparelli «La mia bambina ci va felice ma io temo ancora lo stadio»

l’intervista
In una domenica di pioggia in cui il sole fece capolino solo per spianare la strada al buio di una morte ingiusta, quaranta anni fa tra due giorni, il calcio italiano smarriva la sua innocenza. Per la seconda volta, dopo che nel 1963 a Salerno un proiettile vagante uccise Giuseppe Plaitano, un tifoso entrava in uno stadio e non ritornava più a casa: Vincenzo Paparelli, un padre di famiglia di 33 anni che sei giorni alla settimana faceva il meccanico e il settimo seguiva la Lazio, se ne andò all’Olimpico con la moglie Wanda per il derby ed entrò nella storia per essere stato seduto al suo posto, in Curva Nord, in un momento tragicamente sbagliato, un’ora prima della partita. Morto senza un perché. Colpito in volto, mentre stava mangiando un panino con la frittata, da un razzo a paracadute di tipo nautico sparato 160 metri più in là, dalla Curva Sud, da un ultrà romanista, Giovanni Fiorillo, costituitosi dopo 14 mesi di latitanza, condannato per omicidio preterintenzionale a 6 anni e 10 mesi e scomparso nel 1993. «Quella domenica - racconta il figlio Gabriele, oggi 48 anni - io, papà, mamma e mio fratello dovevamo andare dai nonni. Smise di piovere e mio padre cambiò idea. Piansi, perché anch’io volevo andare allo stadio. «Al derby meglio di no, è pericoloso. Ti porto alla prossima», mi disse papà. Una prossima che non c’è mai stata.
Da quel maledetto 28 ottobre 1979 è mai tornato allo stadio?
«Il meno possibile. Mi è venuta una sorta di fobia. Se posso preferisco restare a casa, anche inventandomi delle scuse. Mi sto riavvicinando un po’ grazie a mia figlia Giulia: ha 7 anni, ma è tifosissima della Lazio e le piace andare all’Olimpico».
Recentemente ci è tornato?
«Manco da un bel po’. L’ultima volta che ci ho messo piede è stato al “Di Padre in Figlio” (evento annuale in cui si celebrano le icone laziali, ndr) di quasi due anni fa. Forse, tra una decina di giorni, dovrei andare a Lazio-Lecce: mi sembra una gara tranquilla».
E sua figlia di solito con chi va allo stadio?
«Con il nonno materno».
Come le ha spiegato che in Curva Nord sventola una bandiera col ritratto dell’altro nonno, Vincenzo?
«La prima volta mi ha chiesto il perché ci fosse. Imbarazzatissimo, le ho risposto che “nonno Vincenzo era un tifoso speciale, tutti gli volevano bene e hanno fatto una bandiera per ricordarlo”. Ora, ogni volta che va allo stadio, la cerca con gli occhi, la vede ed è felice».
Si sente tranquillo quando sua figlia è allo stadio?
«All’interno sì: ormai la sicurezza è ai massimi livelli. Basta vedere come è stato individuato il povero imbecille che ha fatto il gesto dell’aereo ai tifosi del Toro. All’esterno, invece, c’è sempre un po’ di rischio».
Il primo sentimento che le affiora ripensando a quella domenica?
«La rabbia. Non ho mai capito perché è morto mio padre e non ho mai potuto vivere il lutto in maniera intima. Ho dovuto ingoiare tanti bocconi amari, incassare insulti, ascoltare cori beceri e vedere scritte vergognose sui muri».
Gira ancora con vernice e bomboletta spray per cancellare quelle scritte?
«Ora, grazie ai social, appena ne appare una vengo avvertito e io o chi per me provvediamo subito alla cancellazione. Sono entrato a gamba tesa sulla mia storia, cercando di far capire che dietro a quegli insulti c’era la sofferenza di una famiglia. Purtroppo, anche 40 anni dopo, ogni tanto ne spunta ancora qualcuna».
Cori e scritte da una parte, ma anche tanta solidarietà dall’altra.
«Da una perdita così grande è venuta fuori la parte migliore di tanta gente. Il popolo laziale ha adottato la mia famiglia, ma anche il tifo romanista ci ha sempre espresso tantissima solidarietà. Nonostante qualche cretino che probabilmente neanche sapeva chi fosse mio padre, non ho mai chiesto vendetta o detto una sola parola contro i romanisti. Ho persino perdonato il ragazzo che lanciò il razzo: non voleva uccidere qualcuno».
Cosa ha provato di fronte alle altre morti di calcio?
«Un dolore fortissimo, ogni volta. Forse non sarebbe male ritornare a un calcio più sano e persino più ingenuo e a vederlo come uno sport, con semplicità e senza violenza». —
Riproduzione riservata © Il Piccolo