I settant’anni di Gianni Rivera genio predestinato del calcio

Rocco lo difendeva dalle critiche: «Non corre tanto ma non c’è nessuno come lui in grado di esaltare gli attaccanti». Capello: «Il più grande mai visto in campo»
Di Bruno Lubis
Gianni Rivera, former Italian player and member of the Italian team that won the 1968 European Championships appears on stage during the UEFA EURO 2012 draw ceremony in Kiev, Ukraine, 02 December 2011. ANSA/SERGEY DOLZHENKO
Gianni Rivera, former Italian player and member of the Italian team that won the 1968 European Championships appears on stage during the UEFA EURO 2012 draw ceremony in Kiev, Ukraine, 02 December 2011. ANSA/SERGEY DOLZHENKO

di BRUNO LUBIS

Il 18 agosto di 70 anni fa, nasceva ad Alessandria Giovanni Rivera, quello che sarebbe diventato il Golden Boy del calcio italiano, uno dei più geniali artisti del pallone, simbolo del calcio italiano del dopoguerra. Nella stessa data nasceva anche Roberto Rosato: lo ricordiamo come uno dei più bravi difensori italiani, e lo piangiamo per la morte prematura. Con Rivera, compagni di club e di nazionale, facevano la coppia di gemelli rossoneri.

GLI INIZI Rivera, nome di ascendenze spagnole, fiore mandrogno di una terra a mezzo tra Piemonte e Lombardia, debuttò in serie A a nemmeno 17 anni. Fu segnalato al ds del Milan, Gipo Viani, da Pedroni, difensore dei grigi ex ex rossonero. Viani, vecchio filibustriere del pallone, lo vide e lo ammirò. Lo portò a fare un provino con i fuoriclasse dell’epoca. Schiaffino, Liedholm, Maldini se ne dichiararono entusiasti E Gipo Viani telefonò balbettando alla sua maniera in sede, parlò col segretario Passalacqua e disse «C’era un po’ di nebbia sul campo, forse per questo non ho ben capito quando era Schiaffino e quando questo Rivera a toccare il pallone».

Un predestinato, Rivera. Elegante quant’altri mai, creava situazioni semplici e geniali. Lo stesso fuoriclasse racconta: «Mi è sempre piaciuto molto far segnare i miei compagni più che andare in gol personalmente».

Ma di gol ne fece anche lui, come un vero numero 10, altruista e capace di sbrogliare in prima persona le situazioni difficili o sbloccare il risultato. Tanto che realizzava a ogni campionato almeno una decina di reti, ma esaltando la vena realizzativa di Sormani, Bigon, Villa, Prati oltre che di Altafini e Maldera. Non riuscì a rendere prolifico Calloni, lo sciagurato Egidio, né Chiodi. Ma ce la fece anche con Antonelli e Novellino.

IL ROSSONERO Nel Milan entrò tra i titolari nel 1961, a 19 anni, e da allora divenne il simbolo dei rossoneri. Adesso il Milan non lo vuol ricordare perché inviso a Berlusconi che crede che i dirigenti siano più importanti dei giocatori (Di Stefano lo coglionerebbe come fece col mitico presidente Bernabeu ai suoi bei dì). Vinse scudetti, due Coppe dei campioni, una Coppa Intercontinentale, due Coppe delle Fiere, fu Pallone d’oro, primo italiano, dopo aver conteso il trofeo al mitico portiere Jashin. In nazionale fu leader non sempre accettato dagli interisti ma solo lui seppe accendere il talento di Riva, Boninsegna e di Mazzola stesso. Con Mazzola dette vita alla staffetta al Mondiale del 1970 ma il vero genio suo avversario è stato Mario Corso, il sinistro di Dio, che regalò all’Inter quel tocco di fantasia ed eleganza solo un po’ minore di livello rispetto a quel che fece Rivera in rossonero e in azzurro.

I COMMENTI Il compianto Mario David ricorda: «Quando eravamo in difficoltà, chiamavamo Gianni. Lui era giovane e talvolta pareva disinteressarsi alla partita, difetto che cancellò ben presto. Un urlaccio di Maldini o mio, un richiamo di Sani e lo vedevi caracollare alla sua maniera, elegante e imprevedibile nei cambi di direzione. Gli davi il pallone e lui ti creava una situazione di gioco straordinaria». Zagatti spiega: «Ti accorgevi che Rivera aveva fatto una giocata straordinaria solo dopo averla vista e ripensata. Sul momento pareva una cosa elementare. Ma nessuno di noi ne era capace». Fabio Capello non ha dubbi: «Rivera è stato il giocatore più grande che ho visto sul campo». Baresi è sullo stesso sentire: «Mai visto uno come Rivera». Il ct azzurro Prandelli: «Mi sarebbe piaciuto allenare Rivera da giovane». Sarebbe stato una gioia per lui.

E chi lo allenò, Nereo Rocco non ebbe dubbi a spiegare la classe di Rivera a un critico feroce e sagace del fuoriclasse, Gianni Brera: «Gianni non corre molto, è vero, però non c’è nessuno come lui capace di fantasia, di creare una giocata che ci permette di andare in gol. Perciò il Milan con Rivera in campo ha un suo equilibrio, la nostra Maginot dietro il nostro capitano e Sormani, Prati e Hamrin in avanti a muoversi con equilibrio. Perché non facciamo il catenaccio per il gusto di farlo, ma mettiamo Rivera al servizio di tre attaccanti».

A proposito di Brera. Va detto che il giornalista lo chiamava Abatino, perché lo riteneva un grande stilista ma poco maratoneta. Dopo alcun i campionati, il medesimo Brera lo definì Vescovo, finalmente convinto della genialità del numero 10 rossonero. Eppoi Brera dovette esaltare Platini che non era certo un giocatore propenso alla corsa: il francese era capace di vincere con 20 gol la classifica dei cannonieri, ma accanto a lui Rossi segnava solo 4 o 5 gol all’anno e gli altri poco più di nulla. Ma Brera teneva famiglia e la Fiat dettava legge in campo e sui giornali.

I GOL Che Rivera sapesse esaltare gli attaccanti (ma fu anch’egli capocannoniere assieme a Savoldi e Pulici) lo dice Pierino Prati, a proposito della finale della Coppa dei campioni contro l’Ajax: «Rivera aveva intuito dove finiva il pallone, lo intercettò e partì in contropiede. Era solo in avanti, saltò il libero Vasovic, dribblò il portiere, non tentò l’appoggio nella porta vuota forse perché era decentrato. Restò calmo e aspettò che arrivassi da dietro. Mi mise una pennellata deliziosa sulla testa e realizzai in 3-0». Quasi lo stesso racconto di Valdano sul fantastico gol di Maradona all’Inghilterra nel 1986: «Lui mi chiamava e saltava gli avversari, aspettava che arrivassi ma non ce la facevo a presentarmi smarcato in area. Così Diego realizzò quell’impresa».

Che Rivera avesse carattere, lo dimostrarono le decise prese di posizione contro il mondo arbitrale e la sudditanza psicologica; contro il sistema federale e l’autoritarismo della dirigenza italiana. Ma lo mostrò anche in campo, sfidando gli argentini dell’Estudiantes, nel ritorno alla Bombonera, nella Coppa Intercontinentale. Il Milan aveva vinto a San Siro 3-0. Al ritorno, Lodetti, uno che ha corso per lasciar rifiatare Rivera («Ma con lui vincevamo le partite e i premi erano per tutti») ricorda che gli spettatori lanciavano contro i rossoneri che entravano in campo bicchierate di acqua bollente che loro si portavano sugli spalti per farsi il Mate o Yerba Buena. E poi i giocatori furono capaci di aggressioni vigliacche su Prati a terra, su Combin, entrate omicide da dietro. A un certo punto Rivera partì da solo, saltò in dribbling due o tre difensori, rischiando la frattura della tibia, uccellò anche il portiere in uscita e depositò il pallone nella porta sguarnita: la partita era virtualmente finita, il Milan aveva un vantaggio di 4 reti e lasciò agli avversari la platonica soddisfazione di vincere 2-1, tanto per non incendiare ancor di più gli animi degli avverasari e degli spettatori.

L’ALTRO RIVERA Chiudiamo con il ricordo di Rivera uomo politico di dubbie capacità, moderato tra i moderati (non si sa cosa voglia dire il termine) e poi ballerino aggraziato ma impacciato alla Tv di stato, ma con un gruzzolo di 400mila euro di compenso. Lui si è difeso con una battuta resa famosa da Rocco quando voleva sottrarsi alla discussione con i suoi giocatori per una scelta tattica o di schieramento: «Me ga dito mia moglie». A Rivera, di mettersi a ballare davanti a Milly Carlucci, glielo ha imposto la moglie. Noi restiamo in attesa di una sua autobiografia, pagine schiette e racconti veri di vent’anni di calcio ad altissimo livello. E speriamo che stavolta la moglie non gli dica niente.

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