Gaspari: Trieste è la mia scommessa

TRIESTE La scorsa primavera guidava la sua squadra nella finale scudetto. Adesso sta preparando il derby regionale in B1 contro Talmassons. Come ritrovare Spalletti tra qualche mese su una panchina della LegaPro di calcio. Sembrerebbe strano. Ma Marco Gaspari è anche un lucido sognatore. Ad appena 34 anni ne ha già spesi metà in palestra ad allenare. Le sfide non lo spaventano. Se l’ieri era Piacenza, vicecampione d’Italia nell’A1 di volley, l’oggi del tecnico anconetano è la Libertas Simagas Trieste, 3 vittorie in 4 partite in B1. Matricola terribile, un’etichetta prevedibile, ma ci può stare.
Maggio. Piacenza ha appena perso gara4 della finale scudetto al PalaVerde di Treviso. Conegliano vince il titolo. Gaspari nel dopogara è quasi spietato nell’autocritica: «Sono dispiaciuto per non essere riuscito a dare la zampata. Un tecnico dev’essere bravo a inventare qualcosa quando le cose non vanno. Da questa stagione ho capito che devo lavorare come un pazzo perché voglio vincere. Devo migliorarmi».
La suggestione Trieste prende consistenza durante l’estate. Fino all’accordo con la Libertas Simagas. B1. Un altro mondo. Da un squadra di professioniste a una realtà che arriva dalla quarta serie. Ma Gaspari è abituato a scommettere su sè stesso. «Due corsi allenatori e il girone dei Mondiali femminili di due anni fa mi hanno fatto apprezzare Trieste. Città splendida, un grande Palasport. Facile mobilitare il pubblico se giocano la Nazionale o il Brasile ma ho visto il PalaRubini riempirsi anche per Camerun-Canada. Ho capito che qui la pallavolo piace. Nessuno in Italia ha un’attività di base tanto vivace. Nè sono molte le città dove giri per strada e vedi tante ragazze sopra il metro e settanta. Io sposo i progetti se li sento come abiti da cucirmi addosso. Alla prima giornata abbiamo portato al palazzo 250 persone. Poche, sicuro, in un impianto che può tenerne settemila. Ma sono un importante punto di partenza. E riempire quel Palasport con la pallavolo non è un sogno impossibile».
IL DIRE E ...IL FARE Di solito, dopo frasi così, c’è sempre un però. E, infatti, arriva puntuale. Un «però» che è anche un’interessante fotografia da parte di un professionista su quello che è un microcosmo che ancora fatica a svilupparsi. «A Conegliano erano state addirittura 10500 le richieste di biglietti per le finali scudetto. Falconara, vicino a casa mia, è una cittadina di 26mila abitanti che era riuscita a farsi conoscere universalmente per la pallavolo. Perchè una città di 200mila abitanti come Trieste non può pensare di arrivare un giorno in serie A1? Ci si può arrivare. Ma con pazienza. Con determinazione. Sapendo che ci si arriva solo lasciando da parte i pregiudizi, i campanilismi, le piccole rivalità, consapevoli che vanno costruite fondamenta solide e staff attrezzati. L’improvvisazione non paga. Io arrivo da una terra, le Marche, dove si parla poco e si lavora tanto. Lo stiamo dimostrando anche nei giorni terribili del terremoto. Sono abituato a guardare ai fatti e ai valori».
L’accordo di Gaspari con il club triestino gli consentirebbe di liberarsi qualora si prospettasse un’offerta di quelle che non si possono rifiutare. Ma il tecnico anconetano non sembra avere fretta di preparare nuovamente la valigia. Un’offerta allettante, del resto, era già arrivata, proprio pochi giorni dopo l’accordo con la Libertas. «C’era un’opportunità all’estero, in un college Usa. Una bella tentazione. Ma avevo firmato il contratto con Trieste e la mia famiglia mi ha insegnato il rispetto e il senso di responsabilità. Sono rimasto qui».
FIGLIO D’ARTE Il padre, Luciano Gaspari, è stato un grande tra gli arbitri italiani. Uno stimolo ma anche il rischio che una figura così si rivelasse troppo ingombrante. «A casa ho respirato volley sin da bambino. Papà arbitro, uno zio dirigente, un altro ex giocatore. A un certo punto ho odiato la pallavolo. Ero quello ribelle. Ho giocato a basket, a tennis, ho nuotato. Solo a 14 anni, tardissimo, mi sono deciso a provare con il volley. E ho smesso quando ne avevo 17. Un mio allenatore mi ha chiesto: “ti va di darmi una mano?” Di mio ci ho messo la tenacia. Con mio padre avevamo stretto un patto: finchè lui fosse rimasto ad arbitrare io non avrei mai allenato in A. Nessuno avrebbe dovuto pensare che ero arrivato in alto grazie a lui nè che ci potessero essere favoritismi se ci fossimo trovati di fronte. Siamo due tipi tosti ma la nostra vera guida è mia madre. Io alla fine in A ci sono arrivato, ho avuto anche fortuna, perché no? Ma sono uno che lotta. Mi hanno insegnato che se ti arrendi hai torto. Conte una volta ha detto: “Vedere la propria squadra che gioca bene è una gioia”. Sono d’accordo, e potrei aggiungere: “Donne unite per inseguire lo stesso obiettivo sono fantastiche”».
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