Due medici sportivi indagati per la morte di Bovolenta

MACERATA. Una coronaropatia aterosclerotica severa, un’ostruzione delle coronarie non diagnosticata: è questa la patologia «silente» costata la vita a Vigor Bovolenta, il pallavolista della Volley...

MACERATA. Una coronaropatia aterosclerotica severa, un’ostruzione delle coronarie non diagnosticata: è questa la patologia «silente» costata la vita a Vigor Bovolenta, il pallavolista della Volley Forlì, ex campione olimpico, morto a soli 37 anni dopo un malore sul campo, il 24 marzo di un anno fa a Macerata, durante una gara con la Lube. Una malattia cardiovascolare che secondo la procura avrebbe dovuto impedire all’atleta di calcare i parquet del volley. Sotto inchiesta due medici sportivi di Forlì e Meldola che nel 2011 rilasciarono a “Bovo”, veneto di Contarina (Rovigo) trapiantato in Emilia-Romagna, certificazioni di idoneità sportiva agonistica. In questi giorni, come ha anticipato ieri il Resto del Carlino, si sono visti recapitare l’avviso di chiusura delle indagini, preludio a una richiesta di rinvio a giudizio per omicidio colposo. Quasi un anno di accertamenti e una superperizia affidata dai pm Enrico Rastrelli e Andrea De Feis a quattro consulenti - l’anatomo cardiologo dell’Università di Padova Gaetano Thiene, il cardiologo Gian Piero Perna, il medico legale Mariano Cingolani, il tossicologo Rino Froldi - per argomentare quello che molti avevano pensato subito, guardando Vigor accasciarsi al suolo dopo una battuta. Un gigante all’apparenza imbattibile sconfitto da un nemico “in casa”, il suo cuore troppo fragile. Nella stagione 1997-’98, quando vestiva la maglia del Ferrara, Bovolenta si era dovuto fermare per tre mesi e mezzo a causa di un’aritmia. Poi si era ripreso, i test medici erano confortanti, e Vigor - sposato con l’ex pallavolista Federica Lisi, il quinto figlio, Andrea, nato a ottobre, dopo la tragedia - era tornato a giocare. Ventuno anni di carriera, il debutto con la Nazionale azzurra nel 1992, l’argento alle Olimpiadi di Atlanta nel 1996, una Coppa del mondo, un Campionato europeo, e quel trombo in agguato, che alla fine gli ha ostruito l’arteria. Servono «eco, imaging e screening genetici, solo così eviteremo di vederli morire in campo», aveva detto la Commissione Igiene e Sanità del Senato a luglio, dopo la morte del calciatore Piermario Morosini. L’ennesimo dramma che ha riacceso i fari sulla necessità di maggiore responsabilità e preparazione delle società sportive e delle associazioni scientifiche di cardiologia.

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