"Dado" e la favola dei leoni
TRIESTE «Ho conquistato tante promozioni nella mia carriera ma la prima con Trieste è stata la più bella. è successo un miracolo: una città, una squadra e una società erano diventate una cosa sola, consapevoli di condividere un grande momento». Gianfranco Lombardi ricordava così i suoi anni a Trieste, in particolare la fantastica promozione in A1 della sua Hurlingham nel febbraio del 1980. Intendiamoci, il Dado era capace di dire tutto e il suo contrario riuscendo a convincere chiunque. Ma, stavolta, probabilmente era completamente sincero. C’è stato un tempo in cui il Dado a Trieste era il re dei leoni. Intervistato, a trent’anni di distanza, ricordava con affetto, uno ad uno, i suoi ragazzi, da capitan Meneghel, pronunciato scadendo l’accento sulla prima sillaba, a Caio Scolini («era il simbolo di una squadra operaia. Non potevamo permetterci uno smoking o uno Zegna, dovevamo vestire la tuta da lavoro»). La sua descrizione di James Bradley era quasi spietata. «Non avea il fisico per giocare centro, non aveva la velocità dell’ala, giusto qualche buon movimento sotto, una seconda scelta Nba senza futuro. Ci ha dato quattro volte più di quanto ci aspettassimo: prendeva botte e non diceva niente, non sprecava un tiro».
TOSCIA. Il condottiero burbero e la sua truppa. Roberto Ritossa è stato uno cui il Dado non ha risparmiato niente. Le reclute, del resto, non potevano fiatare. «Mi ha fatto debuttare ragazzino, nell’estate del 1976. Tutto ciò che mi ha insegnato è rimasto dentro di me. Le lezioni di Lombardi mi hanno accompagnato per tutta la carriera. Il pubblico poteva cogliere solo alcuni aspetti della sua personalità. Carattere difficile? Certo. Burbero? Sicuro. Se perdevi un incontro non vedevi l’ora che arrivasse la domenica successiva per riscattarti e liberarti dall’angoscia. Ma se vincevi, vivevi felice per sette giorni». Il Ritossa dell’era Lombardi è stato il ragazzo della panchina spedito a correre ripeturamente su e più per i gradoni di Chiarbola ma è stato anche...«Con Lombardi ho giocato la partita della vita. Stagione 1980-81. Piazzale Azzarita, contro la Virtus Bologna. Noi senza Baiguera e Marvin Barnes. Dado era un grandissimo motivatore, riuscì a caricarmi e quel pomeriggio mi riuscì tutto». Ritossa segnò 36 punti, 14 su 17 dal campo. Nel tempio del basket italiano. Merita un capitolo a parte la dimestichezza di Lombardi con la lingua inglese. Per sua fortuna all’epoca gli stranieri erano solo due. «Ma riusciva comunque a commettere errori divertenti - continua Ritossa - Imparava un termine alla settimana e lo usava continuamente. Una volta imparò la parola fast-break, cioè contropiede. Allenamento al mattino. Iniziò a gestiscolare, indicando il canestro verso l’area bar all’ingresso. Peccato che sbagliò clamorosamente la parola. Si confuse tra fast-break e breakfast. Erano le 11 del mattino e Laurel e Larry Boston lo guardarono sbalorditi: davvero il coach voleva mandarli a...fare colazione?»
IL RICORDO DAGLI USA. Potenza dei social. La notizia della morte di Lombardi rimbalza dall’altra parte della luna. Carlos Mina lo ricorda su Facebook, il primo post ad accodarsi è di un altro glorioso leone neroverde. Ron De Vries, proprio lui, infatti scrive: «Dado a Trieste ha preso la nostra squadra più debole e l’ha fatta migliorare in cinque partite. Ha migliorato tutti i suoi giocatori. Il suo amore per il gioco e per la vita sono rimasti con me sempre. Riposa in pace, eri e sarai sempre semplicemente il migliore». Carlos Mina rievoca una delle stagioni più difficili della storia del basket triestino. «Dado era proprio un personaggio. Molto animato e chiassoso. Un vero peccato che il “dirigente” (scrive letteralmente così, ndr) abbia scelto un giocatore problematico come Marvin Barnes. Era una tale distrazione che purtroppo è stato la causa della nostra brutta stagione. Ha fatto impazzire il coach». Angelo Baiguera raccontava di baruffe memorabili con l’allenatore. «Voleva venire a vedere dove vivevo, cosa facevo. Gli raccontavano che suonavo la chitarra e lui diventava pazzo, sarebbe venuto a spaccarmela. Ma in campo era leale. Non c’erano favoriti. Se sbagliavi un tiro venivi richiamato in panchina. A Brindisi giochiamo bene nel primo tempo e poi veniamo rimontati. Time-out a due minuti dalla fine e Lombardi mi fissa dicendomi di tutto, come non bastasse mi assesta una pacca tremenda e rischio di cadere. Mi giro e gli dico “Coach non gioco più”. Lombardi manca in campo un altro, Pozzecco mi viene vicino e fa da paciere. Parla con me, parla con Lombardi. Mi rimette sul parquet e vinciamo». Fumantino, Lombardi, da buon livornese. E con una fantasia inarrestabile. Un aneddoto che amava raccontare per impressionare l’interlocutore era questo. «Una volta, quando giocavo, mi sono infilato un pesce dentro i calzoncini e prima di tirare l’ho consegnato all’avversario. Mentre lui sorpreso guardava sto povero pesce io ho fatto canestro». Altri tempi. Un episodio così, adesso, ripreso dai cellulari diventerebbe virale nel giro di mezz’ora. Allora, invece, il Dado aveva gioco facile a raccontare storie così. Altri tempi. Tempi che rimpiangeva. Negli ultimi anni, malato, stanco, aveva diradato le uscite, senza nemmeno concedersi quelle rievocazioni pubbliche che sono il giusto tributo ai grandi. «Il basket di oggi? Mi annoia terribilmente. Tutti giocano allo stesso modo. Comandano i soldi e nessuno rischia», aveva detto proprio in un’intervista a Il Piccolo. L’uomo che aveva portato in Paradiso un’Hurlingham operaia, tra sfuriate e risate, non poteva più ritrovarsi in un basket così.
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