Con la nascita di una barca la città rivive il mare

Anni fa ho fatto un sogno. Che una barca nascesse sotto gli occhi dei miei concittadini. Che i nonni portassero i nipoti a vedere come si taglia il fasciame per costruire una chiglia. Che la città si ricongiungesse al mare e agli uomini che ci hanno lavorato, con una cerimonia simile a uno sposalizio. Ho anche immaginato che tutto questo avvenisse nel luogo-simbolo di questo rapporto, la Pescheria, che non a caso fu costruito a forma di chiesa. E sperato persino che la barca, uscendo per il varo in mezzo ad ali di folla plaudente, obbligasse il Comune a togliere le vecchie porte di ferro per dare all'evento il segno di rottura. Rottura da un destino che ci ha cancellati dal mare con l'annientamento del Lloyd, il taglio delle linee marittime, la riduzione ai minimi termini dei cantieri e la svendita del porto pubblico a un giro di pochi intimi.
Ora questo sogno si sta per avverare. A partire dal 3 ottobre, una barca nascerà in Pescheria. L'idea, bellissima, della società velica Barcola-Grignano di trasformare il vecchio mercato del pesce in uno "squero", per una settimana, nella cornice del cosiddetto "Salotto Vienna", e di far assistere il pubblico della regata d'autunno a un piccolo miracolo di costruzione navale, è carica di un numero impressionante di significati. Non è un caso se la nave e la navata hanno più o meno la stessa forma panciuta e le due parole hanno la stessa origine. Fino a ieri, in molte città mediterranee, le barche si portavano in chiesa per essere benedette prima di prendere il mare. La costruzione in un pubblico di uno scafo è, prima di tutto, un atto di fede pieno di significati che meriterebbe salutare con uno scampanio a distesa da San Giusto all'ultima periferia.
Mi era venuta malinconia nel vedere la mostra di Kounelis, sistemata in quello stesso luogo, esibire ai triestini un funerale di barche. Pareva il segno della fine sul nostro destino marinaro. Ora avremo il contrario, vivaddio: una gioiosa nascita, un atto di orgoglio, di rifondazione e di resistenza al declino. E anche se la barca è piccola (poco più di quattro metri), essa restituisce alla Pescheria, infelicemente ribattezzata "Salone degli incanti", il suo ruolo di spazio adriatico, luogo popolare e quindi non ristretto agli utenti delle sfilate di moda e affini. Essa offre a Trieste lo specchio di ciò che è stata, diventa una dichiarazione di identità marinara, getta le basi di un luogo della memoria di cui essere fieri, un luogo degno, dove poter mostrare finalmente ciò che siamo stati e ciò che siamo ancora, nonostante tutto, a chi viene in visita alla città. Spero che la civica amministrazione ne tenga conto.
La barca sarà assemblata davanti a tutti, scuole comprese, in mezzo ad altri scafi già costruiti: un catamarano, due "dingy" e uno skiff iper-tecnologico e "performante" che porta il numero "49". Contemporaneamente, in Pescheria, si avrà una raffica di incontri sul tema del mare. Ma sarà lo scafo e la manualità della sua costruzione a fornire a tutto questo il senso e la cornice, nobilitando una regata che stava prendendo pericolosamente l'aspetto di una sagra. La "Barcolana", con la grande emozione popolare che suscita, deve restare il momento in cui Trieste declina le sue generalità e si mostra per come vorrebbe e potrebbe essere se solo se ne coalizzassero le energie. Soprattutto negli spazi di terraferma era urgente ridare dignità alla regata, ed è quanto a mio parere si sta facendo. In questo, la società organizzatrice può essere citata ad esempio di come, anche in momenti di ristrettezze finanziarie, si possa costruire qualcosa di valido mobilitando energie gratuite e volontarie. Anche qui, una balle pista da seguire per il nostro Municipio.
Il rilancio marinaro della Pescheria diventa anche, mi si consenta, un atto riparatorio di una ferita che spesso le stesse società veliche hanno inflitto alla città, recintando, e quindi negando ai cittadini, l'accesso al mare come un qualsiasi spazio privato, e questo con l'assenso del Demanio. Non posso rassegnarmi al fatto che, nella città dal più bel fronte mare d'Italia, ci si debba ridurre al Molo Audace come unico spazio di affaccio all'Adriatico. Non voglio parchi del mare, né sul mare, perché il mare non ha bisogno di parchi a pagamento per incantarci ed è l'ultima cosa libera che ci rimane. Riprendiamoci le Rive: potrebbe essere questo lo slogan.
Ma ora che la festa cominci, che le vele si riempiano di vento, e che si mostri finalmente, a una generazione che ha perso l'uso delle mani, una tradizione artigianale che ci ha resi grandi e, così facendo, si affratellino i giovani ai vecchi che hanno costruito la nostra marineria. Perché non si scappa: se Trieste è decaduta quando ha voltato le spalle al mare, significa che il suo passato migliore, ma anche il suo futuro possibile, non stanno certo in terraferma.
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